L’Austria come nazione nacque cioè come rimpianto. Il più lucido affresco di questa nostalgia lo tracciò Joseph Roth, che dedicò gran parte della sua opera a narrare quelli che Karl Kraus avrebbe chiamato Gli ultimi giorni dell’umanità. Nella Marcia di Radetzky sembra che Roth voglia dare concretezza a quel concetto – perduto – di “umanità”, individuandone la massima espressione proprio nell’Austria prebellica: «Allora, prima della Grande Guerra, non era ancora indifferente se un uomo viveva e moriva. Se uno era cancellato dalla schiera dei terrestri non veniva subito un altro al suo posto per far dimenticare il morto ma, dove quello mancava, restava un vuoto, e i vicini come i lontani testimoni del declino di un mondo ammutolivano ogni qual volta vedevano questo vuoto».È il mondo, dorato e rarefatto, della Montagna incantata di Thomas Mann, non a caso collocata dall’autore «molto lontana nel tempo [...], già coperta di nobile patina storica». Eppure Mann aveva iniziato a lavorare al suo capolavoro ancor prima della guerra: ma già in corso d’opera s’avvide che il conflitto aveva stravolto ogni coordinata, ogni punto di riferimento; che quell’“incanto” cosmopolita e alto borghese, fatto di piccole ritualità quotidiane e di sogni intellettuali, andava «raccontato nel tempo del più remoto passato». L’ultima pagina del romanzo balza senza soluzione di continuità dal lussuoso sanatorio svizzero al fango della trincea: lo stesso straniamento che Roth esprimeva nella Cripta dei Cappuccini con quella frase ricorrente, «la morte incrociava già le sue mani ossute sopra i calici dai quali noi bevevamo, lieti e puerili». Nella nostalgia di Roth trova spazio il presagio, costruito a posteriori, della carneficina imminente: «Dai nostri cuori grevi nascevano le battute spensierate, dalla sensazione di essere votati alla morte un folle desiderio di qualsiasi affermazione di vita; di balli, feste popolari, ragazze, pranzi, gite, stravaganze d’ogni genere».
Lo sguardo del narratore sulla Belle Époque è lo sguardo dell’innocenza perduta, che la rimpiange nel dolore della consapevolezza che non potrà più tornare. Lo dichiara Walter Benjamin nel saggio “Per una critica della violenza”, raccolto in Angelus Novus: «Nell’ultima guerra, la critica della violenza militare è assurta a punto di partenza di una critica appassionata della violenza in generale, che mostra, se non altro, che essa non è più esercitata o tollerata ingenuamente». È l’ingenuità, più ancora di qualsiasi condizione ideale o materiale, l’oggetto del rimpianto più acuto.Quel mondo fiducioso e sereno è al centro anche di tanta letteratura inglese, nella quale la civiltà perduta nelle trincee è stata quella della Londra vittoriana, narrata sì da grandi opere, ma forse con ancor maggior schiettezza in quelle ritenute minori, dai racconti di Sherlock Homes di Arthur Conan Doyle ai romanzi umoristici di Jerome K. Jerome. Il mondo di Sherlock Holmes rimase cristallizzato all’anteguerra, anche nei racconti pubblicati successivamente (l’ultimo nel 1927), con le sue carrozze e i suoi fattorini, i suoi salotti borghesi e le sue plebi cenciose. Così Jerome in Tre uomini in barca affrescò un’Inghilterra serena, tanto nell’ordinata Londra quanto nei bucolici paesaggi del Tamigi; e in Tre uomini a zonzo descrisse una Germania pacifica e prosperosa, ben lontana da quella che sarebbe divenuta il Nemico. Due autori, Doyle e Jerome, anche personalmente toccati dalla Grande Guerra: Doyle vi perse un figlio, nel 1918; Jerome – sebbene all’epoca già ultracinquantenne – prestò servizio per la Croce rossa francese. «La vista dei campi di battaglia – ha scritto Manlio Cancogni – lo sconvolse al punto di fargli perdere ogni fiducia nella fondamentale bontà della natura umana. Al ritorno in patria era un uomo dal morale spezzato». E, abbandonato per sempre alla nostalgia il mondo incantato dei Tre uomini, scrisse Tutte le vie conducono al Calvario.