Pio XII ritratto alla scrivania - Web
La figura ieratica e distaccata di Pio XII, il sorriso bonario di Giovanni Paolo I, l’impulsività di Pio XI, la ponderazione di Paolo VI, la capacità relazionale e l’atteggiamento sportivo di Giovanni Paolo II. Quante volte abbiamo sentito parlare di queste e altre caratteristiche esteriori dei papi del Novecento quasi fossero delle fotografie plausibili della loro personalità? Quante volte le abbiamo viste utilizzate a beneficio di interpretazioni mediatiche superficialmente adattate a tesi e analisi storiche di comodo? A fronte di questa appiattente vulgata massmediale cosa penseremmo se da accurati studi grafologici e psicologici emergesse che l’austero aspetto pubblico di Pio XII non era che il riflesso di una radicale immersione nella sua idea di pontefice, che celava al mondo un’umanità emotivamente coinvolta, per la quale in Eugenio Pacelli «non c’era nulla di quello che la gente comune provava da cui volesse estraniarsi»? In questa logica va letta la grandiosa capillarità dell’apparato di assistenza ai perseguitati messo in piedi nel mondo dalla Chiesa di Pio XII negli ultimi anni di guerra.
Allo stesso modo, cosa diremmo se venissimo a sapere che, per altrettanta comprensione dell’immane responsabilità morale e spirituale del suo ruolo, Paolo VI aveva nei fatti scelto di attenuare, fino a farla scomparire, la brillante personalità intuitiva ed empatica mostrata al fianco di Pio XII e in parte da arcivescovo di Milano, per far emergere solo ed esclusivamente il successore di Pietro? Lui stesso, in un celebre dialogo con Jean Guitton, che gli proponeva un libro per raccontare «l’uomo diventato papa, il pensatore-pastore» rispose: «Lei vuole fare il ritratto di un essere che non esiste. Montini è scomparso, è stato sostituito da Pietro». Quale sarebbe, poi, la nostra reazione se venissimo posti di fronte all’evidenza che, al di là del sorriso accogliente e misericordioso, albergava in Albino Luciani una non comune attitudine alla rapida lettura dei problemi, unita alla ferma capacità di rompere gli schemi e di «combattere per i suoi ideali come un guerriero»?
Esempi di questo genere se ne potrebbero fare tanti stando a quanto emerge dall’interessante viaggio proposto da Lidia Fogarolo attraverso un secolo di pontificati nel libro Scrivere (nel)la storia. Uno sguardo ai papi del XX secolo attraverso la loro grafie, edito da Graphe.it (pagine 280, euro 15,90). Psicologa e grafologa fra le più conosciute, l’autrice analizza le personalità e le caratteristiche psicologiche di nove papi da Leone XIII a Giovanni Paolo II (con un breve aggancio iniziale alla figura di Pio IX, ultimo papa fieramente e pienamente ottocentesco) intrecciando lo studio delle loro scritture, precedenti e successive all’ascesa al soglio pontificio, con quel che sappiamo delle loro vicende personali e con i fatti della storia di cui furono protagonisti. Un viaggio necessariamente a volo d’uccello. Coprendo infatti uno spazio temporale molto vasto, usa i riferimenti storici al solo scopo di contestualizzare le personalità dei pontefici per poter collocare lo studio grafologico delle loro scritture all’interno dei periodi e degli avvenimenti durante i quali furono redatte. Insomma, come ben annota l’editore introducendo il libro, non si tratta di un testo di storia, ma di uno studio psicologico «che cerca di entrare nell’animo dei papi per comprenderne i cambiamenti tra il prima e il dopo l’accettazione delle chiavi di Pietro».
Un singolarissimo punto di vista, che pone in evidenza interessanti spunti di analisi fra i quali, forse primo fra tutti, l’ammissione da parte dell’autrice dell’evidente emersione in tutti i papi oggetto di studio, della cosiddetta grazia di stato. Cioè di una sorta di capacità di adattamento al grande compito a loro affidato, che risulta andare oltre le caratteristiche personali e psicologiche emerse in precedenza. Ma anche, come per Giovanni Paolo II, di un evidente legame col trascendente. Di una sua scrittura ufficiale del 1989 così Lidia Fogarolo ne riassume l’analisi alla luce delle scritturere degli anni precedenti: «Perfettamente allineata sul rigo e omogenea nell’inclinazione, a indicare la stabilità e l’omogeneità delle posizioni adottate, apparentemente prive di dubbi. Semplificata nelle forme confermando il suo bisogno di essenzialità per risalire alle cause ultime delle cose. Ricca di risvolti curvi ai vertici inferiori che mostrano la sua posizione di uomo aperto e capace di stabilire relazioni amichevoli con chiunque. Abbastanza simile a quella di trent’anni prima (sempre ufficiale, ma da arcivescovo di Cracovia), ma che ora mostra una maggiore spontaneità anche nel suo volto pubblico, come conquista di un uomo che ha attraversato molto della vita e che ha meno bisogno di difese terrene perché si è affidato a forze che vanno oltre queste».
Non avendo qui lo spazio per approfondire gli altri interessanti studi che mostrano, per esempio, l’intelligenza moderna ed empatica di Benedetto XV e la “maschia” fermezza di Pio XI , restiamo sulle pagine dedicate a Wojtyla a conclusione delle quali l’autrice smentisce apertamente due luoghi comuni sulla sua personalità. Ritiene infatti «riduttivo» e «misero» attribuire, come fanno alcuni biografi, il «suo grande potenziale relazionale» all’esperienza teatrale condotta in gioventù quando invece risulta il frutto della «forte componente emotiva» e di attenzione all’altro che lo ha sempre caratterizzato e che era «alla base del suo carisma». In ugual maniera Fogarolo definisce «misera» la spiegazione del suo bisogno di restare in contatto con la natura facendo sport «perché così si mantiene in forma». Dal punto di vista grafologico, spiega, «non si trattava di una preoccupazione salutista, ma di un intenso bisogno di collegarsi al divino scalando montagne, scendendo in canoa, sciando in mezzo alle rocce innevate. Per un’anima incarnata come la sua tutto questo gli parlava di Dio quanto i libri sacri».