Lo scrittore Mario La Cava (1908-1988)
Pubblicato originariamente da Einaudi nel 1973, torna in libreria per i tipi di Rubettino (all’interno della collana di classici calabresi “La nave dei pini”) I fatti di Casignana (pagine 216, euro 16,00), con la prefazione di Goffredo Fofi, di cui anticipiamo in questa pagina un estratto. Il romanzo narra le vicende della lotta contadina all’indomani della Grande guerra in un paese alle pendici dell’Aspromonte per il rispetto della legge Visocchi, secondo cui ai reduci di guerra era concesso di sfruttare i terreni incolti. I contadini avviano la bonifica di una foresta ma l’iniziativa verrà repressa nella violenza dall’azione congiunta di Stato e proprietari terrieri.
La riproposta di I fatti di Casignana ha il sapore di una scoperta, quasi di un dono postumo di La Cava ai lettori del nostro tempo, un libro diverso dagli altri che egli ha scritto e che è però legato a doppio filo alla storia di quella parte del Sud che era la sua. Come a La Cava sia venuta l’idea di investigare e ricostruire e narrare I fatti di Casignana è ascrivibile in parte all’“ odore del tempo”. Il libro esce nel 1974, è stato scritto evidentemente prima di quella data, ed è ipotizzabile una lontana attinenza con il film di Florestano Vancini scritto da Leonardo Sciascia Bronte, cronaca di un massacro, ispirato a sua volta, come alla lontana si può pensare anche per il libro di La Cava, al formidabile racconto di Verga Libertà, ispirato alla rivolta di Bronte del 1860 repressa nel sangue da Nino Bixio, a dimostrazione delle compromissioni garibaldine e delle ipocrisie piemontesi, di un regime che ne sostituisce un altro di un affine classismo.
Pochissimi anni prima del film e del libro c’era stato il ’68, e c’era stata anche una storia meridionale, e più calabrese forse che siciliana, del ‘68. Essa è stata condizionata dalle distanze del Sud dai centri della rivolta e dalla minor presenza dell’Università (la cui diffusione meridionale è successiva al ’68, originata anzi dal ’68) e da un maggior sfascio della sinistra, tra ottusità comuniste e opportunismi socialisti e nonostante il bellissimo slogan, partito dagli studenti ma per un tempo fatto proprio dal sindacato, “Nord e Sud uniti nella lotta”. È stata un frutto del ’68, come molti sostengono, anche la rivolta di Reggio del 1970-71? Essa fu fatta propria e gestita dalla destra, e da quella più estrema, per la viltà e miseria della sinistra istituzionale. C’entra per qualcosa l’eco del ’68 nell’idea di La Cava di riportarsi indietro ai “fatti di Casignana” del lontano settembre 1922, un mese prima della mussoliniana “marcia su Roma” e della sua presa di potere? Non si può non pensarlo, se non altro per contrapporre una storia all’altra e, diciamo, la purezza della prima con l’ambiguità della seconda.
Nella sua ricostruzione La Cava non tenta confronti con il presente, e sa bene che si tratterebbe di un gioco sfuggente e rischioso. Ma un confronto invece se lo concede, e mi pare evidente, con i due romanzi che, prima del suo, hanno narrato l’occupazione delle terre incolte nel Primo dopoguerra e negli anni ancora di guerra, un fenomeno che si ripeté a più vasto raggio, molto più vasto, nel Secondo dopoguerra e particolarmente in Sicilia, ma che stavolta ha lasciato ben poca traccia nella letteratura del tempo, e semmai nel giornalismo e nelle memorie politiche e non nel romanzo.
I due romanzi sono Le terre del Sacramento di Francesco Jovine (Einaudi 1950, ora Donzelli) e Il brigante di Giuseppe Berto (Einaudi 1951, ora nella BUR), che riguarda peraltro proprio la Calabria. Berto era trevisano, ma innamorato della Calabria dove soggiornò a lungo. Dina Bertoni, la vedova di Jovine, considerava Il brigante una sorta di plagio del romanzo di suo marito, ma l’accusa è affrettata; piuttosto, il capolavoro del molisano Jovine è pur sempre Signora Ava, che con Il gattopardo è il più bel romanzo sul nostro Risorgimento, per di più raccontato dal punto di vista dei contadini e non dei loro padroni.
Il limite (il solo!) delle Terre del Sacramento è di avere un eroe, in affinità alle opere del realismo socialista ma anche a quelle del neorealismo allora trionfante, ed è lo stesso limite del Brigante. Ma è opportuno considerare, in affinità con la realtà delle occupazioni del Secondo dopoguerra, che vi furono in Sicilia ammazzati dalla mafia armata dagli agrari dei giovani leader sindacali, socialisti. Eroi contadini, come Salvatore Carnevale, come Placido Rizzotto.
La Cava non accoglie gli stimoli di queste esperienze (di queste storie, di queste vittime...) e sceglie la coralità che era stata di Libertà, quella coralità che Sciascia avrebbe ribadito in Bronte. Egli avrebbe potuto ben trovare un “eroe” nelle (bellissime, anche nelle loro debolezze) figure del sindaco e di un vicesindaco (socialisti) dei “fatti di Casignana”, ché uno dei caduti, colpiti dai moschetti dei carabinieri e dei fascisti, fu proprio il vicesindaco socialista.
Non mancarono a Casignana personaggi che avrebbero potuto venire innalzati al rango di eroi popolari, idealizzabili, cantabili. Nella ricostruzione di La Cava egli appare una figura di mirabile coerenza, insieme fragile e deciso e, come tanti suoi prossimi, uno che cresce nell’esperienza della lotta, nell’esperienza della fraternità con gli altri ribelli, nella ricerca condotta insieme e riflettendo giorno per giorno sui processi scatenati dalla lotta del modo migliore per “ben fare”. Seguendo l’antico istinto del bene e della solidarietà, del dir di no all’ingiustizia e alla sopraffazione, di sfidare il male.
Anche per i casignanesi, la domanda fatidica e di sempre, nel ribellarsi, è “che fare?”: dentro la rivolta e la lotta, è una domanda costante, un rovello costante e che non può aver mai delle risposte stabilite a tavolino da qualche stratega laureato o da qualche leader designato da fuori e dall’alto. Il coro e non l’eroe. La scelta è chiara e coerente, per l’autore dei Racconti di Bovalino, delle vite comuni di personaggi non troppo immaginari, di “tipi” e di “caratteri”, di vite comuni che finalmente, in I fatti di Casignana, è come trovassero una casa comune, e in un periodo preciso della storia della loro comunità. Una comunità che bensì comprende i borghesi, i professionisti, i nobili, i padroni e i loro mediatori e servi, una comunità (un comune) dove non comanda la maggioranza ma una minoranza di privilegiati. Insisto sulla parola “comunità”, sull’aggettivo “comune”.
La grande capacità di La Cava, quello che ne dimostra e ne accerta il valore di storico e di sociologo oltre che di narratore corale, è quella di stabilire un’analisi delle classi che non esclude le “contraddizioni in seno al popolo” ma le affronta anzi di petto, con esemplare rispetto dei fatti, della realtà, ma con la rarissima capacità di scavarvi dentro, di scrutarne ogni momento, e ogni imperfezione, ambiguità, scoria. E ogni menzogna, se è il caso, dettata dall’interesse o dalla demagogia.
Bisognerà pur citare tra i riferimenti di La Cava non solo Verga (e tra i contemporanei Sciascia), ma anche i grandi meridionalisti tra Otto e Novecento: Fortunato e Salvemini anzitutto, ma anche il pugliese Fiore, il campano Dorso. E, perché no? certi marxisti irregolari, dallo sguardo libero dai pregiudizi ideologici, con la capacità di affrontare la realtà con il massimo di lucidità e con la dovuta coerenza. Ah, come sarebbe bello avere ancora un Levi, o ancora un La Cava che sappiano affrontare il Sud di oggi, i problemi e le contraddizioni di oggi, con il loro acume, il loro rigore, la loro radicale moralità.