Albrecht Dürer, "Strega a cavallo di una capra", 1501, particolare - WikiCommons
Il tempo trascorre inarrestabile, ma ci sono argomenti che non passano mai di moda. La streghe, per esempio: oggetto da secoli di esecrazione e di appassionate e compassionevoli difese, di calunnie e di rivendicazioni. Ricordate il tempo di “Tremate, tremate: le streghe son tornate!”, che di quando in quando torna a balenare nei meeting femministi?
Ma che cosa interessa di più: la vecchia e laida (o magari la giovanissima, splendida e tenebrosa femme fatale) serva e amante del demonio, la povera medichessa o ostetrica di villaggio vittima dell’ottusa violenza “inquisitoriale” o della superstizione fanatica del popolaccio ignorante, oppure il fatto della “caccia alle streghe” in sé e per sé, l’epidemia di paura e di repressione abbattutasi sull’Europa tra fine Trecento e metà circa Seicento ma con propaggini che arrivano a lambire l’età contemporanea, e con numerosi revival?
D’altronde, ogni tempo ha le “streghe” che si merita. E se tornano le streghe ecco subito anche i loro cacciatori. Le purghe staliniane di metà anni Trenta e i forsennati processi “anticomunisti” che sconvolsero l’America del senatore MacCarthy un ventennio circa più tardi stanno dietro il capolavoro di Arthur Miller (agli italiani noto sotto il titolo Il Crogiuolo) che rievoca un’epidemia di paura e di roghi nel puritano Massachusetts del XVII secolo, con epicentro nella città di Salem.
Ma qui nasce un primo inciampo. Le colonie britanniche protestanti del Seicento. Ma le streghe non appartengono al buio medioevo, così come la loro persecutrice, la nera Inquisizione? Ohimè, per quanto i fondamenti sia del fenomeno stregonico sia i testi teologici e giuridici che consentivano ai buoni cristiani d’individuare, smascherare e punire le serve di Satana appartenessero in realtà principalmente alla fine del medioevo, fra Quattro e Cinquecento, la parossistica epidemia della paura e della persecuzione scoppiò soprattutto nel “luminoso” Rinascimento. E a voler «pensar male», come diceva il senatore Andreotti, verrebbe quasi il dubbio che tale periodo storico fosse detto appunto “luminoso” perché rischiarato dai roghi accesi dovunque tra Europa e Nuovo Mondo.
Un problema complesso, ma chiaro
È così? In realtà, le cose furono più complesse: ma è abbastanza facile seguire l’ingarbugliato procedere dei fatti storici quando si disponga di un buon libro che ci guida nella loro interpretazione. Che ha destato molte polemiche, peraltro. Ma a padroneggiare la questione ecco adesso un nuovo volume che, fino dalla storia delle sue vicende editoriali, ha del romanzesco.
Non è in effetti consueto che un libro di autore italiano esca prima in altra lingua per poi esser tradotto e pubblicato anche da noi. La cosa è rara: ma non impossibile. È accaduta per esempio al libro di Marina Montesano, Maleficia. Storie di streghe dall’Antichità al Rinascimento (Carocci, pagine 284, euro 26), nuovo di zecca per noialtri al di qua dell’Oceano ma uscito in inglese cinque anni orsono per l’editore londinese Palgrave Macmillan col titolo Classical Culture and Witchcraft in Medieval and Renaissance Italy.
In effetti la Montesano, barese cattedratica di storia medievale nell’università di Messina, ma ex allieva della Brown University di Rhode Island, Usa, quel libro se lo è prima pensato e scritto direttamente nella lingua di Shakespeare: e solo più tardi se lo è autotradotto in italiano. Siamo quindi in presenza di una “retroversione d’Autore”. E non finisce qui.
Il titolo scelto per la traduzione italiana è senza dubbio più misterioso e affascinante del severo originale anglofono: potrebbe però esser fuorviante, mentre quello maggiormente descrittivo della versione inglese appare anche più fedele al contenuto. Scopo dell’opera, infatti, non è il tracciare una carrellata di storie di stregoneria attraverso i secoli, bensì analizzare in che modo i modelli letterari di maghe e striges – figure storiche o mitiche dell’età classica e preclassica - abbiano attraversato i secoli medievali, interpretati in modi vari a seconda degli autori e dei contesti, per poi approdare al Rinascimento, durante il quale perderono il carattere di favola che li aveva accompagnati nell’epoca di mezzo per divenire uno dei pilastri nella costruzione della stregoneria di età moderna, quella appunto dell’epoca della vera e propria “caccia alle streghe”. L’età che noi celebriamo quindi come momento di grande rinascita della cultura, avrebbe favorito uno dei fenomeni più sconcertanti e irrazionali della nostra modernità.
Le radici classiche della stregoneria
Il racconto di Maleficia si dispiega sulla lunghissima durata: si parte infatti dai “prototipi stregonici” presenti nella letteratura greca, vero e proprio serbatoio di temi, personaggi e atteggiamenti destinati ad avere un profondo impatto sulla civiltà occidentale e a investire proprio il campo della magia e della stregoneria. Con due figure archetipiche: Circe, che trasforma i compagni di Ulisse in bestie, e Medea, l’avvelenatrice e assassina dei suoi stessi figli. Entrambe “femmine sacre”, figure semidivine. Accanto a questi due esempi, il mondo greco offre riflessioni sulla natura ambigua della magia e testimonianze dei primi processi per crimini legati alla stregoneria (un termine che deriva dalla strix, rapace notturno e figura demonica capace di metamorfosi umano-bestiali. Alcune creature mostruose, come la famosa Lamia, hanno origine in questo contesto: e siamo alle radici dei miti vampirici.
Le figure greche di Circe e Medea emergono dal mito e dalla tradizione orale; le maleficae latine sono al contrario un prodotto della creatività letteraria. Come la spaventosa Erichto di Lucano o le Canidia e Sagana ritratte da Orazio: tutte “manipolatrici del sacro”, possedevano caratteristiche pronte a diventare costanti nelle successive rappresentazioni della stregoneria: come vediamo nello stereotipo della vetula dai capelli scomposti, antitesi della modestia propria al genere femminile correttamente proposto. Inoltre, il mondo romano produsse una serie di leggi, dalle Dodici tavole al Codice teodosiano, che si occupavano della magia dannosa e che avrebbero influenzato l’intera tradizione europea. Già allora il maleficium si qualificava nei suoi aspetti più orridi come specchio e proiezione del fascino esercitato dalla femmina sul maschio: ai partner virili delle maleficae, detti magi – un termine d’origine persiana destinato a una grande carriera – o incantatores, si attribuivano tratti più sacerdotalmente solenni, oscuri a loro volta ma lontani dalle oscene sozzure stregoniche.
La legislazione imperiale romana in materia di maleficia era severa; nel III secolo, le persone ritenute colpevoli di aver causato la morte con l’uso di incantesimi erano condannate a essere bruciate vive. I primi concili cristiani, tenutisi nella tarda antichità, fusero la tradizione romana con quella biblica e trattarono la stregoneria (termine tuttavia ancora ignoto) con la stessa serietà. La letteratura medievale conobbe assai bene gli scritti di autori come Ovidio e Apuleio, ricchi di storie di trasformazioni magiche.
Dall'umanesimo alla predicazione
Tuttavia, la cultura antica ebbe un impatto formativo soprattutto sulla cultura umanistica italiana, con la conoscenza diretta delle fonti classiche che si diffuse tra le élites già all’inizio del XIV secolo: a questa rivisitazione partecipavano sia autori laici, come Albertino Mussato e Giovanni Boccaccio, sia ecclesiastici come i domenicani Domenico Cavalca e Jacopo Passavanti. Nei loro testi è possibile vedere come le idee colte si intrecciassero con le credenze popolari sulla stregoneria: e allora, dalla contaminazione con immagini e raconti folklorici, si profilarono anche le “streghe” come personaggi finalmente definiti tali.
Con il periodo fra Trecento e Quattrocento si ha però una svolta, sulla quale certamente la grande crisi demografica ha un peso nel propagare uno stato di ansia collettivo, che si incontra con la tendenza a dichiarare la magia come ereticale, e dunque perseguibile nello stesso modo, e contemporaneamente con l’opera di quei predicatori che intendevano promuovere una rievangelizzazione della società. “Facciamo un poco d’oncenso a Domenedio” è il titolo di un capitolo che rimanda alla famigerata frase pronunciata dal francescano Bernardino da Siena, il quale, insieme ad altri predicatori del suo tempo, avviò in Italia le prime persecuzioni antistregoniche facendo leva sia sulla sua conoscenza delle striges di memoria classica, sia sulla persistente memoria popolare in materia.
Tuttavia, il predicatore non era solo una sorta di antropologo alla scoperta di antiche credenze, ma era anche qualcuno capace di leggere i sermoni di un altro predicatore che descriveva una tradizione radicata in un’area, e di raccontarla altrove, facendola propria. In questo modo, la circolazione dei temi classici della magia e della stregoneria divenne più efficace nel dare forma a quello che ormai era percepito come un fenomeno pervasivo.
Le conseguenze della predicazione dei Francescani osservanti si manifestano chiaramente nei processi per stregoneria, come quelli tenutosi in Umbria, nel 1428 contro Matteuccia da Todi e qualche anno dopo contro altre presunte streghe. Se Bernardino da Siena e gli altri, con la loro formazione classica, si erano fatti un’immagine della strega attingendo alle vivide descrizioni delle streghe di Ovidio, Petronio e Apuleio, la trasposizione dei topoi letterari nei processi portò conseguenze pesanti. Alcune caratteristiche delle persone accusate di essere streghe (età avanzata, capelli incolti) e i dettagli delle accuse (gli ingredienti delle loro pozioni, la minaccia che rappresenterebbero per i bambini) provenivano dritte dall’antichità classica e giungevano cariche con tutto il prestigio che qualunque memoria dell’antichità possedeva. Dall’Italia centrale, queste credenze si diffusero in altre aree.
Il libro termina proprio con questa disseminazione a livello europeo: le «dodicimila Circe» alle quali allude il titolo dell’ultimo capitolo di Maleficia è tratto dal dialogo Strix di Giovanfrancesco Pico della Mirandola, ispirato a processi realmente celebrati a Modena all’inizio degli anni Venti del Quattrocento. L’autore umanista parla della diffusione della stregoneria nelle sue terre e di come questa abbia prodotto migliaia di imitatrici di antiche streghe. Questo collegamento tra narrazioni dotte e laiche sarebbe divenuto un tratto comune a tutta la trattatistica sui pericoli del fenomeno tra Quattrocento e Cinquecento, ossia all’alba dell’epoca più cupa della caccia alle streghe. Il razionalismo scolastico, riflettendo in termini filosofici sui “poteri” dei demoni in quanto perfetti conoscitori delle leggi di natura e in grado di manipolarle, conferì alla stregoneria quella “verosimiglianza” alla quale i giudici medievali non avevano mai creduto.
La caccia alle streghe è figlia della cultura antica accolta nel mondo rinascimentale, non di un cupo residuo di superstizioni medievali. Una conclusione innovativa e sconvolgente. Non il “sonno della ragione”, ma il “sogno della civiltà” produce mostri.