sabato 29 luglio 2023
Senza un’idea adeguata della persona e della sua dignità, la volontà di potenza della tecnica e di chi la possiede genera violenti squilibri
L'Intelligenza artificiale ci obbliga a "pensare" la tecnica

Pexels-Cottonbro-Studio

COMMENTA E CONDIVIDI

Pensare in profondità la tecnica, in modo da stabilire ciò che essa può fare e ciò che invece non può fare, anche quando volesse esercitare la più alta volontà di potenza: questo è il punto più indispensabile di ogni discorso sull’universo delle tecnologie. Pochi però lo affrontano, e da questa carenza teoretica primaria seguono innumerevoli equivoci.

In diverse occasioni ho mostrato (non è possibile ripeterlo qui) che l’innegabile potenza delle tecnologie non può trasformare la natura o essenza umana, mutandola in qualcosa di altro e diverso. Prese nel loro significato più autentico le nozioni di natura umana o di essenza umana appartengono all’ambito del necessario e dello stabile, di ciò che è strutturato in un certo modo e che non può essere diversamente. Sinché esisterà un essere umano, questi sarà un soggetto personale vivente, formato dal sinolo tra anima e corpo, e dotato di intelletto, volontà e libertà; niente di più e niente di meno. La grandeggiante retorica sul postumano e il transumano, penetrata dovunque da oltre trent’anni e denotata dal detto “Mutare o perire”, ha accuratamente evitato di fare i conti filosofici con le nozioni di natura/essenza e di divenire, che non sono così malleabili come si vorrebbe. In altri termini lo scientismo tecnologico sogna molto e pensa poco: soprattutto non guarda verso l’ontologia. Il rifiuto, spesso apriorico, del discorso ontologico, sposta l’attenzione sull’etica, confidando che essa da sola possa darci una risposta adeguata; purtroppo raramente è così.

La premessa secondo cui la potenza della tecnica non può cambiare l’essenza umana in qualcosa di altro e diverso, non si accorda però con alcuna forma di quietismo, che volesse lasciare campo libero alle tecnologie sulla scorta dell’idea appena enunciata. Anzi i maggiori rischi, insieme alle opportunità, si aprono proprio a questo livello “intermedio” in cui si cerca in genere di restaurare e di potenziare l’essere umano, sia curando malattie sia dotandolo di maggiori capacità. In questo campo possono accadere eventi buoni o cattivi. Consideriamo la sfida dell’Intelligenza artificiale (IA), pressante in rapporto a due fattori: il suo impatto ambivalente e plurimo sull’essere umano nella vita individuale e sociale; il cambiamento iperveloce del tessuto esistenziale e le difficoltà di molti di reggere il ritmo, con le conseguenti fratture sociali in molti campi. Senza un’idea adeguata della persona, dei suoi diritti e doveri, della sua dignità, la volontà di potenza della tecnica - che in realtà è volontà di potenza dei singoli e dei grandi gruppi e holding che operano poderosamente su scala mondiale, spesso in un grave vuoto normativo - è capace di generare violenti squilibri. Finora scarsa è stata la capacità dell’autorità pubblica di regolamentare efficacemente i grandi produttori di IA che, costituiti da gruppi privati egemoni a livello mondiale, mostrano un’alta riluttanza a sottoporsi a controlli e normative.
Nell’epoca dell’infocrazia la questione principale per coloro che si guardano intorno e riflettono, è se vi sarà il tempo necessario per trovare risposte adeguate, prima che il dominio tecnocratico metta a tacere le opinioni dissenzienti. Molti si interrogano sull’influsso che il complesso scientifico-tecnologico esercita sulla democrazia con le relative derive quali l’ascesa del populismo, l’accendersi di acute emotività, l’instabilità dei governi, la diffusione intenzionale di notizie false, la sottrazione ai cittadini della possibilità di scegliere a ragion veduta. Con l’allettamento della libera connessione permanente l’infocrazia fomenta la solitudine della persona. E si sa che la solitudine è la condizione primaria della sottomissione. Questa è in atto in quanto i soggetti connessi si sentono autonomi, mentre sono perpetuamente schedati nelle sterminate memorie dei big data. I controlli sono in fin dei conti nelle mani di coloro che dovrebbero essere controllati.

L’IA è oggi il settore in più rapido cambiamento. Chi abbia una qualche competenza sul modo con cui la persona esercita la conoscenza sensibile e intellettuale, non può non vedere che il termine stesso di IA è un ossimoro, portatore di falsità e mistificazione. L’IA computa e compone ad alta velocità, ma non pensa: l’ intelligenza è vita e non macchina; e se è macchina non è intelligenza. La pervasività del mondo digitale opera contro questa fondamentale acquisizione: il contatto quotidiano con il mondo digitale offusca la diversità tra virtuale e reale, operando una trasformazione ambigua dell’esperienza umana e del senso comune. Si finisce per credere che in numerosi casi decida meglio la IA invece che l’uomo. Qui si può fare riferimento al ricorso all’IA nel campo della giustizia gestita da Stati e corti. Possiamo abdicare al diritto primario che ogni persona debba necessariamente essere giudicata da un’altra persona e non da macchine?

L’ideologia del transumanesimo ha preparato il terreno verso una mente aumentata e un corpo inessenziale per il funzionamento della prima. L’IA si innesta su questa trama favorendo il mentale-algoritmico-virtuale sull’esperienza corporea del mondo. A questo livello si incontra il tema della libertà, più essenziale che mai perché lo scientismo combatte tenacemente per mostrare che l’essere umano è predeterminato nelle sue scelte dal macchinico e dall’algoritmo, e che la coscienza è un epifenomeno di altro. Possiamo perciò essere eterodiretti. E già lo siamo quando, dopo essere stati profilati in mille modi, gli allettamenti della pubblicità ci orientano allo scopo di massimizzare i profitti delle multinazionali che dominano. Un compito urgente sta nel ridestare in tanti l’amore per la libertà e il desiderio di servirsene per vivere la propria vita e per formarsi una capacità di giudizio.

Occorre che singoli e popoli reagiscano alla serpeggiante passività morale, alla sottomissione rassegnata alla tecnologia e tecnocrazia. Senza sottovalutare le prese di posizione critiche e il grande lavoro sulla neuroetica e sull’etica dell’IA, l’atteggiamento dei più sembra quello di stare a vedere in modo passivo. Il poderoso legame tra ricerca tecnoscientifica ed eccezionali livelli di capitale di rischio, che puntano al più alto profitto possibile, scoraggiano e indeboliscono le capacità di reazione. Non ci sono che fragili contrappesi, e nelle democrazie la cattiva moneta delle reti social, dell’IA, degli algoritmi sovrasta tutto il resto. La moneta cattiva caccia la buona, e le grandi imprese tecnologiche non mostrano interesse a correggere queste gravi distorsioni, da cui traggono potere e profitti. L’odio che circola sulla rete rende più di altri business, e non si calcolano i danni inflitti ai minorenni e ai bambini che crescono in tale clima. Una volta di più si mostra vero che i rischi per l’umanità non vengono da errori delle tecnologie, ma dal loro uso malsano. Ogni tecnica è aperta sui contrari, sul suo uso buono o cattivo, e ciò non dipende dalle tecnologie ma dall’uomo che le progetta e le impiega. L’energia atomica illumina le città ma può essere impiegata per distruggerle. Il chip che viene installato nel cervello non solo consente di interpretare i segnali elettrici di coloro che non possono comunicare con l’esterno, fornendo un aiuto; ma consente parimenti di inviare segnali esterni al cervello, con il rischio di manipolazione e di espropriazione del soggetto. Non si dovrebbe mai dimenticare l’intrinseca ambivalenza della tecnica.

Per valutare se siamo preparati per il cambio di mondo che già opera, dovremmo chiederci: qual è il contesto spirituale prevalente in Occidente, in specie negli strati più elevati, a cui toccano speciali responsabilità nelle decisioni pubbliche che riguardano tutti? Nelle nostre società liberaldemocratiche l’umanesimo della persona deve affrontare sfide che provengono dall’involuzione dei concetti di liberalismo e di individuo, quest’ultimo ridotto a esclusiva libertà di autodeterminazione, in cui l’altro è sentito come un limite o un avversario. Il liberalismo, che si è trasformato in neoliberalismo e libertismo sul piano etico, e liberismo in campo economico, continua ad occupare la scena. Il loro richiamo alla persona e alla sua dignità è spesso di comodo per coprire altri cammini: le società liberali sono in crisi a motivo della loro concezione aggressiva dell’individuo autocentrato e ostile all’alterità, e del distacco dall’idea cristiana di persona. Prevale una scepsi diffusa e talvolta apertamente materialistica. Essa, che legge l’io personale come risolto nel circolo della vita biologica, deve oggi registrare una crescente paura del futuro – nonostante i mezzi tecnici potentissimi di cui disponiamo – e timore dell’altro, verso cui si dice: noli me tangere. L’altro è sentito come concorrente, non come potenziale termine di una relazione e della cooperazione.

L’Europa dello spirito non potrà portare un sufficiente rimedio a tale clima se abbandonerà il suo retaggio cristiano, e si volgerà alle potenze dell’epoca, inchinandosi a loro idolatricamente. Vanno meditate le parole di Karl Löwith, stese 70 anni fa: «Soltanto con l’affievolirsi del cristianesimo è divenuta problematica anche l’umanità». Obliato Dio, rischia di essere messo da parte l’uomo, non più pensabile a sua immagine e somiglianza, secondo il messaggio biblico. Allora l’uomo vede solo i propri prodotti, e si pensa a immagine e somiglianza di sé stesso, della sua corporeità più che del suo spirito.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: