domenica 16 settembre 2018
Nato 150 anni fa, allievo di Gauguin e amico di Denis e Serusier, fu uno dei "Nabis" e poi monaco benedettino nel monastero di Beuron. La sua arte cristiana e moderna stato studiata da Montini
Un autoritratto di Jan Verkade (1891-1894)

Un autoritratto di Jan Verkade (1891-1894)

COMMENTA E CONDIVIDI

Giovanni Papini nel suo Passato Remoto, tra i tanti ricordi di personaggi conosciuti nel corso della sua giovinezza, racconta di un incontro 'sconvolgente' avvenuto in un canicolare pomeriggio estivo di inizio Novecento a Firenze. Si trovava con Giovanni Vailati a leggere Platone nel Palazzo Albizi, quando apparve «un giovane alto e magro, con un viso ossuto ma illuminato da una luce insolita, più pura di quella del sole». Era un benedettino di origini olandesi che si trovava ospite dei francescani a Fiesole. Definì Platone «profeta di Cristo» e mise in luce la portata rivoluzionaria del cristianesimo. Papini, ancora ateo, individuò nell’affascinante e folgorante incontro con quell’«Arcangelo redentore... il primo tentativo di Dio di chiamarmi a sé».

Il monaco si chiamava Jan Verkade ed era un pittore. Un pittore della Scuola di Beuron dove, come scrive Papini, «si stava tentando di far risorgere la vera pittura sacra dei secoli cristiani». Nato a Zaandam giusto il 18 settembre di cento cinquant’anni fa, in una famiglia di provata fede protestante, doveva succedere alla guida della ditta dolciaria che aveva fondato il padre, la Verkade, appunto (attiva ancora oggi).

Ma Jan aveva ben altre ambizioni. Era attratto dall’arte e dalla spiritualità. Avrebbe poi ammesso: «La nuova direzione verso cui si indirizzerà la pittura sarà di natura spirituale ». Iscrittosi all’Accademia di Belle Arti di Amsterdam, la lasciò dopo due anni per ritirarsi in campagna.

Dipingeva paesaggi e leggeva Tolstoj. Nel 1891 si trasferì a Parigi dove divenne allievo e amico di Paul Gaugain. «In pittura – ricorderà Verkade –, Gauguin odiava la rappresentazione servile della natura e teneva un certo distacco rispetto all’Impressionismo. Imparò che l’impressione che produce la natura deve essere combinata con un riconoscimento estetico, che deve scegliere, ordinare, semplificare e sintetizzare». I pittori Paul Sérusier e Maurice Denis lo introdussero nel gruppo dei Nabis (“profeti” in ebraico) che cercavano la purezza e la sintesi non attraverso un’impressione ma attraverso un’espressione intima. «Noi – annoterà – eravamo gli apostoli del Simbolismo, del Sintetismo e del Tradizionalismo».

Furono mesi molto intensi e stimolanti. Non solo da un punto di vista artistico. Qualcosa, sempre più, stava evolvendosi in lui. Un cambiamento iniziato quando un amico cattolico lo aveva invitato a entrare nella cattedrale di Colonia per assistere a una messa. Verkade era entrato senza grande entusiasmo. Ma all’atto della consacrazione avvenne qualcosa di inaspettato. Ricorderà: «Come? In ginocchio? Il mio orgoglio protestò con tutte le sue forze contro tale umiliazione. Ma io stavo là, in piedi, e non potei fare altro che inginocchiarmi a mia volta. Quando tutti si alzarono, mi alzai anch’io, e vidi subito che qualcosa in me era cambiato; mi ero inginocchiato, il mio orgoglio si era rotto».

Nel 1892 si trasferì in Bretagna affascinato dalla aspra purezza del paesaggio. Aveva con sé le Confessioni di sant’Agostino e I grandi iniziati di Édouard Schuré. Qui avvenne la definitiva conversione al cattolicesimo. Da poco battezzato, nel 1893 si recò in Italia. Si innamorò di Giotto, del Beato Angelico, di Cennino Cennini (di cui nel 1916 tradurrà in tedesco il Libro dell’Arte, aggiungendovi unaimportante prefazione). Ma si innamorò anche della vita monastica che ebbe modo di sperimentare durante il soggiorno al convento di San Francesco di Fiesole.

In novembre visitò il monastero di Beuron, tra la Foresta Nera e il lago di Costanza. Lì, decise di vestire il saio. Nel 1902 venne ordinato sacerdote, con il nome di Willibrord. Beuron era un centro culturale vivace grazie alla spinta di padre Desiderius Lenz che aveva creato, nel 1868, la Scuola d’Arte Beuronese.

Lo scopo dell’arte di Beuron era quello di rinnovare l’arte sacra con una curiosa commistione tra la lezione degli antichi e l’innovazione delle avanguardie. Anche Verkade, dispiaciuto per un’arte che si era «arresa al Naturalismo», trovò consolazione nello studio di quegli antichi che «s’avvicinavano alla natura con grande rispetto, originato dal loro profondo senso religioso». Nacque su questi pilastri l’arte che Verkade realizzò in vari luoghi d’Europa arrivando sino a Gerusalemme.

Questi viaggi, però, non gli impedirono di ricoprire compiti all’interno dell’abbazia. Come, ad esempio, quello di Gastpater, cioè di “Padre ospitante”: spettava a lui accogliere i non rari visitatori. Tra cui personaggi illustri come, ad esempio, i filosofi Martin Heidegger e Max Scheler. Durante il regime nazista il monastero fu casa accogliente per diversi perseguitati, come per Edith Stein che per ben quindici volte, tra il 1927 e 1933, vi trovò ospitalità.

Verkade, che morirà nel luglio 1946, raccontò la sua esperienza umana, spirituale e artistica nell’autobiografia Il divino tormento (pubblicato in italiano nel 1924). In Italia l’arte di Beuron (e di Verkade) fu analizzata da Giuseppe Prezzolini e dal futuro papa Paolo VI. Prezzolini, che conobbe di persona Verkade, nel numero di “Vita d’arte” dell’aprile 1908, senza risparmiare critiche, sottolineo che l’opera della Scuola di Beuron era «teologia cattolica in forma di pittura» e non aveva niente a che fare con «l’arte primitiva»: «È molto sofisticata, altamente elaborata. Un’arte, oserei dire, come quelle che nascono alla fine di una civiltà, non di quelle che sono la prima espressione di una nuova».

Giovan Battista Montini, invece, visitò Beuron nell’agosto del 1928, durante un viaggio in vari luoghi sacri del nord Europa. Parlò dell’arte che vi era nata in un articolo apparso su “Studium” nel 1929, ripubblicato nel 2004 in Scritti fucini (1925-1933), a cura di Massimo Marcocchi, e oggi conservato presso l’Istituto Centro Studi e Documentazione Paolo VI di Brescia. Pur non nascondendo delle riserve, Montini mise in luce i meriti di un’arte, finalmente, «ritornata cristiana, cioè piena di mistero, di fede», che «fa meditare, fa pregare». Insomma, un’arte che aveva riacquistato «il potere pedagogico dell’arte sacra dei bei tempi cristiani, quando allo scopo decorativo essa preferiva quello istruttivo ed edificante».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: