martedì 24 marzo 2015
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Quest’anno ricorrono gli ottant’anni dall’inizio della campagna d’Abissinia, che portò alla fondazione dell’effimero impero africano di Mussolini. A vivacizzare le rievocazioni, con uno spirito critico che non fa sconti a nessuno, è il politologo e storico Simone Belladonna con il suo libro in uscita giovedì 26 marzo col titolo Gas in Etiopia. I crimini rimossi dell’Italia coloniale (Neri Pozza, pagine 290, euro 19). Tesi forte dell’autore è che sia giunto il momento di riflettere seriamente anche sui crimini compiuti dai nostri avi colonizzatori, mettendo in discussione, una volta per tutte, il mito (o lo stereotipo) degli "italiani brava gente". I lettori probabilmente ricorderanno le polemiche del passato a proposito dell’uso, rimosso per decenni, delle letali armi chimiche durante la guerra d’Etiopia. La querelle vide impegnati, in una lunga schermaglia a mezzo stampa, lo storico africanista Angelo Del Boca, autore dei primi studi che documentarono l’impiego non episodico dei gas, e il principe dei giornalisti italiani, Indro Montanelli.Forte della sua diretta esperienza di combattente nel conflitto coloniale del 1935-36, Montanelli si attestò tenacemente su una linea che si può definire negazionista. Il toscanaccio, alla fine, dopo che il governo Dini, nel 1995-96, chiarì definitivamente modalità e dimensioni del ricorso agli aggressivi chimici, dovette chiedere scusa, non senza espressioni di acrimonia postuma verso chi mandò allo sbaraglio le truppe italiane, ignare (ma fino a che punto?) di quanto stava avvenendo: «Se dagli archivi – scrisse Montanelli – risultasse che noi fummo buttati alla controffensiva senza nemmeno avvertirci che avanzavamo in un inferno d’iprite, non mi limiterei a chiedere scusa a Del Boca. Reclamerei un processo alla memoria dei nostri comandanti con finale condanna al rogo senza effige». Belladonna è assai severo verso il nostro avventurismo coloniale, che inchioda a tre aggettivi polemici: ignorante, razzista, impunito. La durezza del giudizio viene, in qualche modo, ulteriormente enfatizzata da un’altra tesi, sostenuta con eguale forza: ossia, che la guerra d’Abissinia sia stata la miccia che ha fatto esplodere, 3-4 anni più tardi, la Seconda guerra mondiale. Un conflitto che, in base a tale interpretazione, avrebbe esordito con un’arma chimica, per terminare con i gas dello sterminio, e un nuovo strumento apocalittico di distruzione di massa: l’atomica.C’è da rimanere sconcertati a leggere le cifre complessive dei venefici ordigni sganciati sul popolo etiopico: sul fronte nord, 1020 bombe da 500 chili caricate a iprite, su quello sud (somalo), 95 bombe a iprite e 271 a fosgene. E non vale, a circoscrivere l’entità del misfatto, la circostanza attenuante che le condizioni climatiche resero meno prolungata nel tempo l’efficacia del "muro chimico" che avrebbe dovuto avvantaggiare i conquistatori. Né, d’altra parte, può "consolarci" il fatto obiettivo che coloro che allora ci criticarono, come gli americani, a loro volta impiegarono i gas ancora durante la guerra del Vietnam degli anni Settanta: il crimine resta in ogni caso inescusabile.L’autore ha setacciato gli archivi statunitensi, portando alla luce una documentazione diplomatica che conferma il ruolo moderatore giocato dall’amministrazione Roosevelt nel cercare di contenere l’intransigenza della Gran Bretagna contro lo Stato fascista aggressore, dopo il fallimento dei tavoli negoziali.Belladonna ha peraltro il merito di aver scoperto un piano del Duce per influire sull’orientamento dell’opinione pubblica negli Usa, in senso favorevole agli interessi italiani. Scrive infatti: «Mussolini era preoccupato che i tradizionali legami di amicizia tra Regno Unito e Stati Uniti potessero spingere gli americani ad abbandonare la loro posizione di neutralità». Per questa ragione, il dittatore, oltre a concedere interviste alla stampa a stelle e strisce, «inviò d’urgenza negli Stati Uniti un alto funzionario del ministero della Propaganda, il commendatore Bernardo Bergamaschi, affinché selezionasse un’agenzia di relazioni pubbliche americana per sviluppare un’azione di lobbying capace di neutralizzare le pressioni britanniche, anche perché si temeva che l’amministrazione Roosevelt, che da lì a un anno circa avrebbe affrontato le elezioni presidenziali per il secondo mandato, avrebbe fatto proprie le istanze sfavorevoli agli italiani provenienti dalla società civile e sponsorizzate dalla propaganda britannica. Il compito fu affidato alla Wendell P. Colton Company di New York, che elaborò un progetto di massima». Forse avrebbe giovato una più estesa ricostruzione del lavorio diplomatico che, in ogni caso, inglesi e francesi intrapresero, nel tentativo di disinnescare la mina etiopica. Manovre che franarono definitivamente dopo l’affossamento del Piano Hoare-Laval per la pacifica spartizione dell’impero del Negus. Ciò avrebbe oltretutto consentito di chiarire che Mussolini non fu soltanto artefice della soluzione militare, ma giocò, e a lungo, la partita politico-diplomatica, per ottenere un mandato sull’Etiopia per lo sfruttamento economico della regione, in "condominio" con gli inglesi, storicamente ben insediati nel Corno d’Africa.
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