Svetlana Aleksievic è stata insignita del Premio Nobel per la letteratura. Con l'occasione vi riproponiamo una sua recentissima intervista pubblicata da Avvenire.Come i romanzieri dell'Ottocento,
anche Svetlana Aleksievic sta lavorando a un unico grande libro, che cresce
e si precisa nel corso degli anni. «Il libro della sofferenza russa - lo
definisce - perché la nostra è una civiltà fondata sulle lacrime». Più
volte candidata al Nobel (l'ha vinto l'8 ottobre - ndr) e vincitrice di prestigiosi riconoscimenti internazionali,
di recente in
Tempo di seconda mano (traduzione di Nadia Cicognini e Sergio
Rapetti, Bompiani, pagine 780, euro 24,00) ha allestito un imponente affresco
della quotidianità in Russia dopo la dissoluzione dell'Urss.È il titolo
di cui si parlava l'11 settembre scorso al Festivaletteratura, nell'incontro tra l'autrice
bielorussa e Gian Piero Piretto. Sullo sfondo, in ogni caso, c'è tutta l'opera
di questa scrittrice prestata al giornalismo, una testimone irriducibile
e appassionata che invita ad avere ancora fiducia nelle parole, nonostante
tutto.«Mi piace pensare che attraverso i miei libri stia prendendo forma
un genere letterario autonomo - dice -, un modo di raccontare fondato sull'ascolto
di tante storie diverse, alla quali cerco di dare voce nella mia scrittura.
L'arte, per me, non soltanto nasce dalla realtà, ma deve anche arrivare
al cuore e alla mente delle persone».
Qual è in questo momento la caratteristica
principale della sofferenza russa?«La sua incapacità a risolversi in
libertà. Non è un fatto nuovo, purtroppo. Anzi, tutta la cronaca degli
ultimi anni si può riassumere in un ritorno al concetto di "russicità"
dal quale molti di noi speravano di essersi congedati con la fine del comunismo.
Oggi, per esempio, la propaganda sui traditori della patria assomiglia
in modo impressionante a quella dell'epoca sovietica. Particolarmente preoccupante,
poi, è il silenzio dell'opinione pubblica di fronte alla crisi in Ucraina.
Ci si rassegna troppo facilmente alla sofferenza e, così facendo, ci si
rassegna alla schiavitù, al sangue, alla morte. Quella che in passato si
presentava come una sorta di guerra civile all'interno dell'ex Urss si
sta trasformando nella guerra della Russia contro il resto del mondo».
Una rivincita del totalitarismo?«Dagli anni Novanta in poi, la libertà
è stato il tema sul quale più hanno insistito gli intellettuali russi.
C'era la convinzione che si trattasse di un'esigenza diffusa, rispetto
alla quale il sostanziale silenzio del popolo suonava abbastanza strano.
La verità è che il popolo non parlava perché non aspirava affatto a essere
libero. Attendeva semmai che si manifestasse una qualche variante dello
stalinismo, una qualche forma di russicità mutante. Ed è a questo punto
che si è fatto avanti Vladimir Putin, con la promessa di una nuova Russia
dalle ambizioni imperiali, talmente forte da incutere timore al mondo intero.
Un Paese, come Putin ripete spesso, che può contare su due soli alleati:
l'esercito e la flotta».
Niente intesa con l'Europa, dunque?«Negli ultimi
tempi va di moda sostenere che la Russia non ha nulla a che vedere con
l'Europa, che i confini naturali la assimilano all'Asia e via di questo
passo. Ma è un travisamento criminale: la Storia dimostra come le stagioni
di maggior prosperità della Russia abbiano coinciso con la sua vicinanza
all'Europa. Una circostanza che però ha finito per generare un complesso
di inferiorità e, quindi, un sotterraneo sentimento di rivalsa verso l'Europa
stessa. Pensi all'intervento militare in Siria: confermando il suo appoggio
ad Assad la Russia mira in effetti a prendere il sopravvento su un'eventuale
iniziativa europea».
Lo considera un ritorno al passato?«No, il punto
è che la Russia vive nel passato. Qualche giorno fa mi trovavo in stazione
mentre sugli schermi scorrevano le immagini dei profughi siriani accolti
in Austria e in Germania. Le persone attorno a me seguivano il notiziario,
ma non riuscivano a capacitarsi. Perché i tedeschi si comportano così?,
si domandavano. A che cosa serve? Quali sono i vantaggi? È come se, ancora
una volta, la Russia avesse deciso di restare dietro le quinte mentre va
in scena la Storia. Non c'è nessuna coscienza dell'eventualità che possa
esistere una visione condivisa dalla comunità internazionale, non c'è nessuna
volontà di aprirsi a quello che sta accadendo nel mondo. In tutto questo,
il fallimento del rinnovamento promesso dalla perestrojka gioca ancora
un ruolo rilevante. La delusione scaturita da quella rivoluzione mancata
ha generato un sentimento di impotenza sul quale la propaganda ufficiale
ha facile presa. L'interesse russo è sempre al primo posto, il contesto
generale non è tenuto in alcuna considerazione».