Non erano ancora del tutto appassite le grandi illusioni dei figli dei fiori e dei Beatles. Riflessi imprevedibili di queste ansie di libertà e di pace, vissute in una prospettiva del tutto diversa, si proiettarono nei due capolavori firmati da Franco Zeffirelli negli anni ’70:
Fratello sole, sorella luna, biografia del Santo d’Assisi girata in Umbria proprio quarant’anni fa, e il famoso
Gesù di Nazareth televisivo, la cui prima puntata andò in onda sei anni più tardi, il 27 marzo 1977, impresa artistica che ebbe, cosa rarissima, l’onore di due intere pagine di plauso incondizionato dell’
Osservatore Romano.Zeffirelli, 88 anni, ha oggi lasciato il cinema con serena tranquillità e un solo rimpianto, quello dei
Fiorentini, mai andati in porto. Il Roma Film Festival diretto da Adriano Pintaldi gli renderà omaggio con una speciale serata d’apertura il 16 dicembre e una retrospettiva completa, dal 19 al 29, alla Casa del Cinema.
Maestro, fu soltanto una coincidenza la nascita dei suoi due film «religiosi» nello stesso decennio?Ho sempre avuto un grande interesse per la figura di Francesco, ma non ero mai riuscito a decifrarlo esattamente, ad articolare le mie inquietudini. Avevo poco prima girato
Romeo e Giulietta, una grande tragedia in cui si tiene aperta la porta all’amore, come fanno Francesco e Chiara. Non potevo, però, prevedere che avrei di lì a poco affrontato anche la vita di Cristo.
Cosa l’affascinava maggiormente del Santo di Assisi? Il fatto che dentro di noi scorre un sangue pulsante di vita, ma anche un messaggio di ben altra grandezza. Con Francesco arrivò il momento di prenderne coscienza, raccontando una storia di giovani, di libertà, di scoperta dell’amore di Dio.
È vero che aveva pensato ad Al Pacino per il ruolo del protagonista?Si, ma era troppo teatrale. Il mio pensiero all’inizio era stato completamente diverso, avevo cercato di coinvolgere i Beatles. In quel periodo lavoravo a Londra e avevo accesso a tutti gli ambienti artistici. Mi innamorai molto dell’idea di raccontare una storia di un giovane e del suo gruppo di amici coinvolgendo Paul McCartney e i suoi compagni, perché pensavo fossero una fotocopia dei primi francescani e quindi adattabili al pubblico degli anni Settanta. Loro furono entusiasti, accettarono, avrebbero pure scritto le musiche, ma mi diedero la disponibilità soltanto per pochi giorni di riprese. Per me era impossibile farcela in così poco tempo. Fu un grande dispiacere perderli.
Poi arrivò «Gesù di Nazareth». Quali fu il problema maggiore che dovette superare?La mia paura. Già ero stato turbato in molti momenti durante le riprese del film francescano, perché quando l’eternità dello spirito si traduce in una illustrazione, anche buona, significa sempre limitarla. Io il film su Gesù non lo volevo fare. Ma i produttori mi dissero: «Sei un regista molto apprezzato, se non lo giri tu lo farà qualcun’altro e per tutta la vita ne porterai il rimorso». Toccato non nella mia vanità, ma nella mia responsabilità, accettai.
Come scelse Robert Powell per il ruolo di Cristo?Lui doveva interpretare Giuda. Era intelligente, astuto, cattivello: un perfetto traditore. Quando gli feci il provino, arrivò con i capelli lunghi e quei suoi occhi... rimasi fulminato. Lo raggiunsi all’aeroporto di Fiumicino, lo riportai a Cinecittà, chiesi di farmelo diventare il Nazzareno, la sarta gli cucì una veste. Quando entrò, lei quasi cadde in ginocchio.
Che cosa voleva prima di tutto raccontare nel suo film?Il mistero di un uomo che è figlio di Dio e che scopriamo con la sua predicazione e il suo sacrificio.
Apporto decisivo per il successo fu anche quello degli sceneggiatori, tra i quali Suso Cecchi D’Amico e Anthony Burgess. Suso era una maestra nel far diventare vita anche la storia, capiva tutti i riferimenti sociali e umani e questo le facilitava molto il compito di scrivere una sceneggiatura. Burgess è stato uno scrittore cattolico di altissimo livello.
L’episodio, durante le riprese, che più la colpì?I pescatori sul Lago di Tiberiade. Arrivarono per girare la scena – eravamo in Marocco – dei ragazzi semplicissimi, che pescarono sul serio. Si fermarono ad ascoltare una voce lontana, si creò un silenzio irreale, mi fermai a guardarli, poi la mia attenzione cadde sulle ceste dei pesci e su Gesù. Capii in quel momento quanto la storia che andavo raccontando era anche naturale, umana, sconvolgente.
Sono veri gli episodi che la legano a Paolo VI?Conoscevo il Cardinale Montini a Milano. Io lavoravo alla Scala, ci incontravamo spesso. Era molto preso dai suoi impegni, ma non si tirava indietro nell’incontrare noi giovani artisti, magari facendo persino una partita di ping pong. Il film, da Papa, gli piacque moltissimo. Ne parlò anche all’Angelus del 27 marzo e fui ricevuto in udienza da lui.
Dopo il suo, arrivarono il Cristo di Scorsese e quello di Gibson.Il cinema s’impossessa facilmente di tutto, quindi anche di Gesù, ed è capace di raccontarlo anche con capitoli arditi o molto irriverenti.
Tornando a quegli anni, un rimpianto?Tutto è scivolato via senza darmi il tempo necessario per riflettere. Entrato in una strada, non puoi che camminarci, ma intimamente conservo la memoria di quel periodo irripetibile: ho visto la materia che diventava spirito sotto i miei occhi. Ora sono alle prese con una realtà altrettanto misteriosa, ma violentissima, che muove gli interessi materiali di una società intera e del suo modello,
Don Giovanni: metterò in scena l’opera di Mozart inaugurando a giugno la stagione lirica dell’Arena di Verona.
A proposito di «Don Giovanni», stasera inaugurerà la Scala, con la regia di Carsen. Cosa ne pensa?Non mi curo del «Don Giovanni» della Scala, in questo momento penso solo al mio.