In Italia gli intellettuali sembrano ammutoliti. Se si esclude un importante appello in difesa della scuola, dell’università e della ricerca, firmato fra gli altri da Massimo Cacciari e Sergio Givone, prevale un clima di rassegnazione. Ma in tutta Europa non sembrano cavarsela molto bene: in Ungheria la voce altisonante dell’anziana filosofa Agnes Heller, che tuona a difesa della libertà di espressione seriamente minacciata dal governo di Orban, è una voce nel deserto. La fine delle ideologie massificanti e l’avvento dell’informatica parevano schiudere le porte a un’era in cui la creatività potesse esplodere in tutte le sue forme, dalla letteratura all’arte alla scienza alla religione.
Dobbiamo forse ricrederci? Nichilismo in primo luogo, ma anche narcisismo e stupidità vanno per la maggiore. E, riferendosi al compito degli intellettuali, il conformismo e la rassegnazione. In tal modo si capovolge la lezione di Emmanuel Mounier, il quale sosteneva che ogni discorso riguardante l’intellettuale non possa prescindere da due condizioni: l’impegno verso la società nel denunciare il male (o i mali) del mondo e l’ancoraggio alla trascendenza, o almeno a un’autotrascendenza, cioè al senso del limite del desiderio di onnipotenza dell’uomo. Che il termine dia fastidio o sia quasi estinto (e dopo i compromessi col potere cui abbiamo assistito nel ’900, i tanti “tradimenti dei chierici” forse non è del tutto un male che si sia giunti a una perdita d’aureola), purtuttavia sentiamo la mancanza di figure pubbliche portatrici di un pensiero critico, capaci di scalfire e porre in discussione il sistema di potere. Salutiamo perciò positivamente l’uscita in libreria di un piccolo saggio di Pier Aldo Rovatti, L’intellettuale riluttante (elèuthera, pagine 174, euro 15,00).
Ma cosa intende Rovatti? «Una figura di intellettuale che si colloca all’interno dei dispositivi di potere e vi svolga un lavoro ai fianchi denunciando le chiusure senza mai gettare la spugna». L’intellettuale riluttante è chi non cede alla tentazione del congedo e al senso di frustrazione e sceglie di resistere alle sirene del neocapitalismo e all’ondata di antiumanesimo. Decide cioè di «opporsi, dire di no, “riluttare” anche al suo stesso ruolo e alle sue eventuali competenze privilegiate ». Se è scomparso l’intellettuale universale che pretendeva di parlare a nome di tutti, o l’intellettuale organico di gramsciana memoria, il fautore del pensiero critico non può limitarsi a svolgere la funzione del tecnico o del politico del sapere. Deve affilare le armi ed esprimere una “contro-cultura”, spezzando il clima di postverità e invocando nuovi spazi per la riflessione e la meditazione in un tempo che pare averle abolite. Il libro di Rovatti raccoglie una serie di interventi che spaziano dalla scuola alla politica e sorprendono per lo sguardo spesso spiazzante. Giustamente indugia sulla politica ridotta ormai a propaganda: «Dovremmo sempre tentare – si legge in un passaggio – di smascherare quel fondo ideologico che alligna in ogni slogan, anche in quelli all’apparenza più innocenti. L’ideologia non è morta assieme ai grandi sistemi di idee (le “grandi narrazioni”, le chiamavamo), ma sopravvive in ogni discorsività politica, anche la più democratica, quando, come accade, essa deve piegarsi agli imperativi di una comunicazione globale».
E sulla scuola l’autore reclama con forza che essa non rinunci a essere il luogo primo della formazione di una coscienza critica, «restando una scuola delle humanities e attrezzandosi per produrre e diffondere tutte quelle domande di senso di cui oggi abbiamo bisogno». Per questo non ritiene affatto che la cura ai mali della scuola italiana sia quella di darle una direzione unificante dall’alto ma consista piuttosto nella valorizzazione «del “popolo” degli insegnanti, che già sembra possedere le potenzialità per promuovere una cittadinanza attiva negli studenti». Sul tema dei migranti emerge il rifiuto della logica del capro espiatorio oggi dominante e si ricorda non a caso l’opera di René Girard, che evidenzia lo scarto portato dal cristianesimo rispetto alle civiltà antiche: l’aver introdotto la pietà, il rispetto delle vittime, il superamento della barbarie.
Stiamo tornando indietro? A riprova del suo anticonformismo, di Rovatti, noto per aver dato vita negli anni Ottanta assieme a Gianni Vattimo al “pensiero debole”, un filone della filosofia contemporanea che voleva ridimensionare le pretese metafisiche e totalizzanti del pensiero (e che ricevette numerose critiche da parte della cultura cattolica, ma anche il plauso di molti come Dario Antiseri), va ricordata nel ’99 l’apertura positiva verso l’enciclica di Giovanni Paolo II Fides et ratio. Sulla rivista “aut aut” scrisse infatti un articolo in cui rilevava come «il millennio che sta per aprirsi non potrà risolvere e nemmeno affrontare i suoi problemi cruciali con il fondamentalismo della ragione » e individuava nella questione dell’alterità e non solo della tecnica un tema forte per il pensiero. Poi aggiungeva: «Nessuna idea o immagine della verità può chiamarsi fuori dall’esperienza del credere, e se si illude di farlo diventano subito manifesti gli effetti autoritari della verità stessa ». Dando atto a Wojtyla di aver aperto un dialogo sincero col mondo intellettuale, invitava infine credenti e non credenti al confronto: «L’idea di diritti umani è insieme decisiva e fragilissima. Il cosmopolitismo è un fantasma. La globalizzazione appare alla filosofia più una gabbia che un valore di civiltà. Cosa aspettano le ragioni e le fedi a mettersi al lavoro?». Forse che non ne abbiamo bisogno anche oggi?