Marion Muller-Colard
In un intervento del 2014, a proposito del dialogo fra credenti e non credenti, Zygmunt Bauman disse fra l’altro, ricollegandosi alle precedenti parole di papa Francesco ad Assisi: «Un dialogo degno del nome richiede la disponibilità a dialogare con gli avversari; a dialogare non solo con chi è d’accordo con noi e dello stesso avviso su ciò che ci sta a cuore, ma con chi ha idee che ci ripugnano. Non è a queste forme molto comuni di finto dialogo che Francesco guarda». Proprio il Papa ad Assisi aveva invitato a «uscire dal recinto e attraversare la piazza, smetterla di pensare alla distinzione tra noi e gli altri, restando a sedere ai piedi del campanile e lasciando che il mondo vada per la sua strada». Molti hanno storto il naso, e sono comunque rimasti sorpresi, dinanzi al confronto aperto da Bergoglio con personalità del mondo laico che si considerano esplicitamente estranee a una dimensione religiosa. In questo senso Francesco si è mostrato spiazzante ma del tutto in linea col Concilio, prendendo sul serio l’appello circa «il rispetto e l’amore per gli avversari». Persino un mistico come don Divo Barsotti scrisse nel suo diario nel 1973: «Qualche volta è più corroborante per la vita spirituale leggere l’opera di un ateo intelligente che un libro di teologia cristiana. La lettura continua ed esclusiva di libri spirituali può sostituire tutto un mondo di pura immaginazione alla realtà. La parola di un ateo è più potentemente un richiamo all’atto di fede. Le argomentazioni dell’ateo richiamano alla fede più della sicurezza tranquilla del teologo, che sa dirti tutto, su tutto ha da dirti qualcosa». Le frasi di Francesco e di Bauman, che negli ultimi tempi si era stancato di essere considerato solo come il teorico della “società liquida” e ricordava come la nostra società oggi sia più che mai “solida”, cioè tendente ad escludere sempre di più i poveri e gli emarginati, segnano un passo in avanti nel dialogo fra credenti e non, e richiedono uno scatto da parte di una cultura cattolica come quella italiana sempre più ingessata e incapace di profondità. L’aiuto migliore può venirci probabilmente da figure estroverse, che se ne stanno in disparte, che vivono da eremiti. In passato ce l’hanno dimostrato scrittori come Erri De Luca, per venire più vicini a noi Paolo Cognetti, con i loro libri fatti spesso di aforismi, di pagine a margine, di lampi di narrativa che oltre che umana si fa spirituale proprio in forza di un senso di solitudine contrassegnato dalla vita in campagna o in montagna. O un’eremita di città come Antonella Lumini, capace di richiamarci al valore del digiuno e del silenzio. Non come via eccentrica, si badi bene, o come fuga dal mondo, ma proprio per distinguere con un’impronta di radicalità ogni possibile impegno per cambiare la società. Ed è certamente dalla letteratura francese che ci giunge un’aria nuova. Ne avevamo avuto un esempio con Christian Bobin e Alexandre Jollien, entrambi fatti conoscere da noi soprattutto grazie all’editrice Qiqajon, fautori nelle loro opere del primato dell’interiorità, della necessità di una trasformazione umana prima che politica. «Sarebbe l’ora – ha detto Bobin in una recente intervista sulla Croix – di rimettere al centro vitale della nostra società coloro che servono, coloro che rammendano senza fine il tessuto dell’esistenza, coloro che non vivono in base ai budget e alle slide». Senza essere tecnofobi o conservatori, Bobin e Jollien vogliono senza presunzione insegnarci Il mestiere di uomo e tessono l’Elogio della debolezza, come si intitolano due libri dello scrittore-filosofo svizzero che porta i segni dell’handicap. Entrambi non credenti, scrivono libri marcati di vera spiritualità. È il caso pure di Marion Muller-Colard, teologa protestante e agnostica (così ama definirsi), il cui volume L’inquietudine è stato premiato quale miglior libro di spiritualità nel 2017. Ora è pubblicato in Italia dalle edizioni San Paolo (pagine 110, euro 12,00). Ed è un vero inno contro l’ipocrisia di tanti che vivono il cristianesimo come «un alibi, un rianzitutto fugio identitario, un biglietto da visita per il vasto mondo della morale». Come Kierkegaard, questa quarantenne che vive da eremita col marito e i suoi due bambini in una baita sui Vosgi ha in odio la tendenza accomodante a sopprimere lo scandalo del cristianesimo e, nel suo elogio dell’inquietudine, si richiama al pensatore Jacques Ellul, che definiva il Vangelo «sovversivo in ogni direzione». In una società ossessionata dal benessere e da quelli che lei stessa chiama i suoi indicatori, la scrittrice si inerpica con le sue frasi provocanti lungo i sentieri del Vangelo, «una strada d’inquietudine» che non lascia mai l’uomo tranquillo e con la coscienza a posto. Gesù in primo luogo attraversa l’inquietudine e la vive intensamente fino alla fine. Quel Gesù che «cammina e incontra», che si preserva dall’immobilismo, che pone domande che spesso urtano l’interlocutore: «Non si esce mai indenni – dice Marion – dalla prova dell’alterità». Poi si spazia fra varie citazioni, da Céline a Pessoa, da Carrère a Bernanos, un cui brano dal Diario di curato di campagna si pone come suggello di questo libro sull’inquietudine perché suggerisce una via al cristianesimo, quella del paradosso e non della convenienza: «Il buon Dio non ha scritto che dobbiamo essere il miele della terra, ragazzo mio, ma il sale. Ora, il nostro povero mondo somiglia al vecchio padre Giobbe, pieno di piaghe e ulcere, sul suo letamaio. Il sale, sulla carne viva, brucia. Ma le impedisce, anche, di putrefarsi».