In un’aula di tribunale o nello studio di un avvocato il caro estinto è sempre (o quasi) il de cuius e la giurisprudenza della Cassazione ondivaga o tetragona, a seconda che le sentenze siano non uniformi oppure talmente solide da non ammettere vie d’uscita. Ancora. In un atto depositato in cancelleria si può far riferimento senza problemi al mero tuziorismo difensivo, espressione sottratta alla teologia che rimanda alla scelta di indicare una questione senza che sia necessaria, oppure a una considerazione ad colorandum, ossia non decisiva nel giudizio. Ed è facile imbattersi anche nel sullodato scrittore (che è stato citato in precedenza) o in una norma non perspicua , vale a dire non ben comprensibile. Come se non bastasse le eccezioni sollevate dai legali avversari sono inevitabilmente meri espedienti , infangatorie, inconferenti (irrilevanti), ultronee (superflue). E ogni affermazione della controparte diventa di per sé fantasiosa, inverosimile o le deduzioni presunte, asserite , pretese. La lingua che parlano magistrati e avvocati è ancora quella di Azzeccagarbugli: sgraziata, ridondante e oscura. Un’antilingua, secondo la celebre definizione di Italo Calvino, in cui abbondano stereotipi lessicali, latinetti, ripetizioni, periodi infiniti, mancanza di un illuminato ordine dei concetti, punteggiatura approssimativa. Il che può portare a una legge che sia meno uguale per tutti anche per ragioni linguistiche. E può trasformarsi in un espediente per difendere l’identità di casta, magari trincerandosi dietro un vocabolario tecnico anche quando si tratta soltanto di conformismo. «Il linguaggio giuridico è sicuramente specialistico – spiega
Federigo Bambi, storico del diritto all’università di Firenze e redattore della rivista dell’Accademia della Crusca 'Studi di lessicografia italiani' –. Se devo parlare di anticresi o di usucapione, non posso che utilizzare questi vocaboli. Comunque un modo di esprimersi più trasparente è possibile». Aggiunge l’avvocato
Alarico Mariani Marini, vicepresidente della Scuola superiore dell’avvocatura e direttore della rivista 'Cultura e diritti': «Accanto a un codice condiviso fra il giudice e le parti, c’è quel giacimento enorme che è la lingua italiana comune da cui possiamo attingere anche quando siamo alle prese con una citazione civile o un procedimento penale». Bambi e Mariani Marini hanno curato il libro
Lingua e diritto (Pisa University Press, 198 pagine, 14 euro) che, in collaborazione con la Crusca e la Scuola superiore dell’avvocatura, vuole aiutare chi si muove fra i palazzi di giustizia a liberarsi da appesantimenti lessicali e sintattici vecchi di secoli. Il testo è figlio di incontri e seminari voluti dal Consiglio nazionale forense per promuovere la trasparenza dell’italiano nei tribunali. Una sfida che vuole smontare, ad esempio, le memorie difensive traboccanti di e valga il vero o cennato. Fossili linguistici, li ha chiamati la studiosa Bice Mortara Garavelli. «La pratica legale – afferma Mariani Marini – si fa ancora sugli atti del 'dominus', ossia dell’avvocato presso cui un laureato si forma, che a sua volta ha ereditato un uso standardizzato del linguaggio. Se non c’è l’interesse al rinnovamento comunicativo, si rischia di scivolare in una lingua gergale e anacronistica che non giova al funzionamento della macchina della giustizia». Bambi cita un caso concreto, proprio di
Bice Mortara Garavelli: «Nessun giurista si stupisce nel sentire o nel leggere che 'il difensore chiede applicarsi all’imputato la diminuzione della pena'. Se si sposta questo modo di costruire la frase in un contesto ordinario, si dovrebbe sentire dire: 'La ragazza chiede applicarsi una toppa ai propri jeans'. Chi parlasse così sarebbe preso per matto. I giudici e gli avvocati non sono né fuori di testa, né fuori del mondo. Perciò farebbero bene a modificare certe prassi linguistiche». Ai professionisti del diritto piacciono i brocardi latini. «Di alcuni non si può fare a meno – sottolinea lo studioso fiorentino –. La massima Nullum crimen, nulla poena sine lege ci dice in maniera sintetica che non ci può essere reato se non in forza della legge. Certo, altri sono assolutamente eliminabili. E, se buona parte degli atti passasse al vaglio di una rigorosa operazione di igiene linguistica, non perderebbero la loro efficacia comunicativa». La scarsa dimestichezza con l’italiano salta agli occhi nei concorsi di magistratura o nelle sessione dell’esame di Stato per avvocati. Habbiamo invece di «abbiamo», correzzione con due zeta, violenza delle norme anziché «violazione » sono alcuni degli strafalcioni messi nero su bianco. «Per anni ho fatto parte delle Commissioni – confida Mariani Marini –. Oggi si scrive molto di più, ma la qualità si è abbassata ». Altro vezzo che unisce in un tacito patto magistratura e ceto forense è la tendenza alla prolissità. «Chiamiamolo pure un vizio consolidato – ammette il legale –. Quando non si ha una buona competenza linguistica, che purtroppo non si apprende nelle facoltà giuridiche, si scivola nella tortuosità. Inoltre c’è la preoccupazione che un giudice non prenda in considerazione una tesi debole; allora si ricorre a un uso sovrabbondante delle argomentazioni». Ecco il punto: l’italiano indecifrabile è una scappatoia per mascherare le difficoltà di un legale (o di un pubblico ministero). «Siccome un’arringa o un atto deve persuadere e convincere – precisa Bambi – più sarà cristallino, più sarà incisivo. E già nel 1911 sosteneva il noto civilista Vittorio Scialoja: 'Poiché non vi è pensiero giuridico se non in quanto sia chiaro, tutto ciò che è oscuro può appartenere forse ad altre scienze, ma non al diritto'». Oggi le disposizioni europee o il Codice del processo amministrativo raccomandano ai giudici e alle parti «chiarezza e concisione». Qualcuno ritiene che una svolta linguistica ridurrebbe anche la durata delle cause. «Probabilmente è un’ipotesi azzardata – conclude Mariani Marini –. Però una lingua giuridica migliore semplificherebbe lo svolgimento del processo aiutando il giudice nella decisione. E consentirebbe al cittadino di non sentirsi ai margini del sistema giudiziario».