Una scena del documentario di Paolo Ruffini “PerdutaMente”, con il regista insieme a una delle famiglie protagoniste
Il grande pubblico lo conosce grazie alla tv, alle commedie di Carlo Vanzina, Neri Parenti, Fausto Brizzi, Volfango di Biasi, Paolo Virzì e a quelle che lui stesso ha diretto, come Fuga di cervelli, Tutto molto bello, Super vacanze di Natale. Pochi sanno invece che Paolo Ruffini, 44enne attore e regista livornese, è da tempo impegnato nel sociale attraverso documentari dedicati alla malattia mentale (Quore matto, Secondo te, Cosa vuoi?, Peter Panico), alla possibilità di essere felici nel dolore ( Resilienza), alla disabilità (con il progetto Up&Down, all’origine del documentario Up&Down - Un film normale). Il suo ultimo lavoro, Perduta-Mente, nelle sale dal 14 al 16 febbraio con Luce Cinecittà, è invece dedicato all’Alzheimer, una malattia ancora misteriosa, crudele, che uccide prima della morte, priva le persone della loro identità e colpisce non solo chi ne è affetto, ma anche i suoi familiari. Insieme a Ivana Di Biase, che cofirma la regia, Ruffini ha attraversato l’Italia per incontrare le vittime del morbo e i loro parenti, impegnati nel testimoniare una lotta impari contro una malattia che solo l’amore, e nessuna medicina, può curare. Ruffini ci racconta il suo viaggio, fisico ed emotivo, i suoi incontri e quello che ha imparato su dedizione, coraggio, affetto, perseveranza, pazienza.
Ruffini, come ha scelto le storie che ha deciso di raccontare?
Attraverso uno scrutinio redazionale di produzione, guidato da Ivana De Biase. Siamo anche andati a conoscere casi che poi non sono stati inseriti nel film perché troppo forti, dolorosi oppure non documentabili. Altri erano talmente intimi che per pudore abbiamo rinunciato. La nostra macchina da presa faceva un po’ fatica a entrare in certe stanze dove si consumava quel dolore. Abbiamo cercato forme diverse di amore, credo che il film racconti questo.
Non sono in tanti a conoscere questo suo interesse per il sociale. Come nasce?
Mi piace più il sociale dei social. Se uno come me ogni tanto fa lo scemo, non è detto che lo sia. Ho presentato comici in tv e ho fatto l’attore brillante al cinema, ma questo non vuol dire che non possa cimentarmi anche con altro. Divoro cinema da anni, mi ha salvato la vita e dalla strada. Quando mi interessa un argomento, il cinema mi aiuta a divulgare quello che imparo. Ho iniziato a fare documentari, mi sono appassionato al genere e voglio cercare di offrire dei contenuti.
Perché questa volta l’Alzheimer?
Non esistono malattie belle, ma questa ha una sua forma lirica. La sua ferocia sfocia nel sublime: “Io non so chi sei, ma so che ti amo”. Come se la malattia non riuscisse a intaccare veramente tutto. Ti porta via la vita e la memoria, ma non l’anima e l’amore. E c’è un legame molto stretto con il cinema, che è la maniera migliore di trattenere un ricordo. Eppure nessun film potrebbe raccontare quello che ho visto, nessuno produttore mi farebbe portare sullo schermo un ragazzo down e con l’Alzheimer, affezionato a un fratello che nel frattempo è diventato un monaco shaolin. Un film non può rendere una realtà così complicata. E noi viviamo in un paese concentrato più sull’effimero, convinto che le cose serie siano seriose.
Il film è il frutto di quell’imponderabile che nasce proprio dagli incontri...
Arrivavo in un luogo, facevo delle interviste, vivevo un’esperienza. Ci sono stati momenti difficili e così forti che abbiamo deciso di non mostrare, ma a volte sono arrivato anche a una illuminazione straordinaria. Inoltre alcune delle persone che abbiamo incontrato oggi non ci sono più o sono molto peggiorate.
Colpisce la lucidità di alcuni intervistati e la loro capacità di racconto struggente e poetico.
Come quello di Franco, all’inizio del film: lui è veramente un eroe romantico deciso a salvare il proprio amore. A 35 anni sua moglie si è ammalata di Alzheimer e lui mi ha portato a vedere il loro letto. Dal lato della moglie, il pavimento è corroso dalle lacrime di lei, versate ogni notte. Una cosa che ho scelto di non mostrare. Il film non ha un valore scientifico, non vuole fare statistiche, ma partendo dalla domanda “che cosa significa prendersi cura di un malato di Alzheimer?” racconta semplicemente delle storie e come questa malattia contagi tutta la famiglia, coinvolgendo corpi, cuori, menti e anime.
Come ne è uscito emotivamente?
Felicemente provato, sono cresciuto molto e anche ingrassato perché mi è venuta voglia di mangiare tanto e di godermi ogni attimo di vita. Questo film me lo sono fatto, ideato e prodotto da me. Da buon livornese sono convinto che è meglio chiedere scusa che permesso. Ho fatto scoperte che mi hanno arricchito tanto in un momento in cui siamo tutti più attenti a un virus che alla vita.
Perché quel confronto con suo padre?
A furia di espormi ero rimasto in maglietta e mi sono tolto anche quella. Mio padre non ha l’Alzheimer ma ha un po’ perso la sua lucidità. Come dice lui, la vecchiaia è già di per sé una malattia e io volevo dargli una carezza. I vecchi sono spesso lasciati soli, io invece ho imparato che i genitori bisogna goderseli finché ci sono.