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Il sacerdote, matematico e teologo russo Pavel Florenskij - archivio
«Purtroppo, un noto grido / Dell’anima suona pure qui, nel fitto / bosco / Ma non importa quanto sia triste / Quanto sia penoso. La grandezza nel futuro / Non cambia ciò che ci è dato / Ora, adesso, ogni giorno. / Solo un’ombra fantasmatica / Cresce e si tende alquanto più lunga / Al tramonto dei nostri giorni. / Getto, gemma, fiore e frutto, / Tutto vive della propria gioia, / Una identica bellezza delizia gli occhi. / Non aspettare ma godi ora», così ammonisce lo Straniero nella seconda redazione del poema Oro realizzata, tra il 1934 e il 1937, durante la reclusione di Pavel Florenskij nel gulag sovietico delle isole Solovki, un arcipelago in prossimità del circolo polare artico. Si tratta dell’ultimo lavoro intellettuale del sacerdote, matematico e teologo russo prima della sua fucilazione, avvenuta l’8 dicembre 1937, all’età di cinquantacinque anni, nei dintorni dell’allora Leningrado, oggi San Pietroburgo.
Adesso, per la prima volta, il poema Oro (pagine 180, euro 18,00) è pubblicato in italiano, grazie all’editore Nino Aragno. L’edizione reca il testo originale a fronte e un’eccellente traduzione e curatela di Lucio Coco, uno dei maggiori esperti del filosofo russo e responsabile già di altre traduzioni di sue opere, conducono il lettore tra i versi del sacerdote ortodosso. Dello stesso poema esiste una versione precedente, raccolta in appendice al volume, che risale ai tempi della reclusione di Florenskij al gulag di Bajkalo-Amurskij, attivo a Skovorodino presso la Stazione sperimentale di studi sul ghiaccio. Durante il periodo di internamento in Siberia, che precede quello alle isole Solovki, avvenuto tra il febbraio e il settembre del 1934, il Leonardo russo compone una prima versione del poema, anche questo in tetrametri giambici, «in quanto è il metro più dinamico e rapido» precisa Florenskij nella premessa, che passa ai familiari nel corso di una loro visita al campo di rieducazione. Il destinatario dell’una e l’altra stesura è lo stesso. «Il poema è stato scritto per mio figlio Mik – confessa il teologo nella premessa – e si adatta alla sua comprensione, anche se, forse, adesso egli non può capire tutte le numerose allusioni di questi versi». Non è la prima volta che Florenskij si dedica alla poesia, come testimonia la raccolta Poesie, pubblicata anche questa da Aragno e sempre a cura di Coco lo scorso anno. A sospingerlo di nuovo verso la lirica, a distanza di quasi trent’anni dai suoi esordi letterari risalenti primi anni del secolo scorso, è la necessità di lasciare, al più piccolo dei suoi figli, Michail (1921-1961), «Il misero dono di un amore impotente», un testamento spirituale o, per dirlo con le parole di Coco, un «poema pedagogico». L’assenza del padre, perché internato dalle autorità sovietiche, si fa di certo sentire. Su entrambi, il bambino e il genitore. «Tu hai visto la luce, povero Mik / Quando tuo padre, in un momento di / torbidi, / Si salvò solo fuggendo e vivendo, Murato tra tombe”. E ancora, “Sono trascorsi anni tristi. / Ma mai, mai / Tuo padre si è dimenticato di te, / Mio piccolo fragile uccellino. / Io sono stato sempre pronto a strapparmi / Il cuore, purché la pace e la calma / Ti avvolgessero». Nella finzione del poema a incarnare il figlio è il giovane Oro, che significa renna nella lingua della popolazione tungusa degli oroceni, cultura di cui Florenskij era venuto a conoscenza durante la prima parte della sua prigionia. Al cuore dei versi ricamati dal padre, persuaso che dall’arcipelago gulag non sarebbe mai uscito vivo, c’è proprio Oro, il figlio inatteso di uno degli ultimi rappresentanti di una famiglia di nobili oroceni. Raccontando in versi le scelte esistenziali e spirituali del giovane siberiano, Florenskij prova ad affiancare da lontano il cammino del figlio mentre si inoltra nei misteri del mondo. Vuole lasciargli, con questo testamento poetico, un portolano per guidarlo, una volta orfano del padre, lungo le vie della vita. Non si tratta di insegnamenti codificati e pedanti, quelli che emergono dal poema, ma di indicazioni per promuovere sensibilità e attenzione. «Il filosofo, il chimico e il poeta / E semplicemente gli uomini, in seguito, / In blocco esclusero il gusto / Dai mezzi di conoscenza, - avverte il figlio Florenskij - temo, / Bollandolo come qualcosa di infimo. Più / volte / Ad esso fu contrapposta la vista. / Sta sulla lingua (nuoce alla scienza!) / Il filosofico divieto. / Ma la mente è elastica: esso non ha / potuto / Ridurre all’ubbidienza l’Oriente». Solo abbracciando percorsi diversi è possibile raggiungere l’essenza delle cose. La sola ragione è incapace di farlo. «All’infaticabile Oro / Il gusto ha aperto l’essenza degli elementi. / Esploratore dall’ottimo fiuto di tutte le / cose, / Della loro occulta essenza, / Del loro sapore-odore, parlava / del ritmo prestabilito delle forze». Ma ciò non basta. Al fanciullo occorre anche disporsi all’ascolto degli antenati anche se meno attraenti degli «spiriti del cielo e della terra». Il ragazzo inoltre «Era travolto dal flusso oltremondano, / D’estasi ardeva la fronte del fanciullo / E inebriato dal mistero del mondo / Oro risuonava con esso all’unisono, Pervaso dal suono». Forse per questo, per la capacità di afferrare i diversi livelli dell’essere lo Straniero può ribadire al padre di Oro che «tuo figlio, è lui quel fiore, / Dalla cui fragranza, l’Oriente / Riceverà il raggio di luce / Dell’autocoscienza, possente nel / pensiero?». Eppure Oro e quindi Mik deve sapere che niente è così facile, che nel corso della vita ai momenti di gioia seguono le paure. «Dopo il pari il dispari, e di nuovo il pari; / Dopo la tristezza la gioia: tutto passa. / E dopo il fuoco ardente / Aspettiamo il giugno fiorito». Per far fronte a questo occorre però tener presente quanto lo stesso Pavel Florenskij annuncia nella premessa. «I ghiacci perenni, come triplice simbolo della natura, del popolo e della personalità, nascondono in sé forze distruttive e creatrici. Fuoriuscendo, esse possono diventare devastanti. (…) La rovina del ghiaccio perenne comincia quando si inizia ad «abitarlo» e ad «appropriarsene». Quindi: «non toccare i ghiacci» degli oroceni. Lo stesso vale anche per l’anima. «Ricoperte dal ghiaccio si nascondono in essa amarezze, offese, tristi osservazioni del passato. Non bisogna tuttavia scavare nelle sue viscere. La vita dei ghiacci perenni dà la forza per avere ragione delle forze distruttive del caos. I ghiacciai sono cultura». Solo con questa consapevolezza «Tu stesso non capirai perché sei felice qui, / Cosa costruisce la nuova armonia del pensiero, / Di cosa qui il cuore di nuovo canta, / Per dove l’anima prenderà il volo».