La sezione centrale con gli stampini devozionali - Ufficio stampa Mudec
Il tatuaggio come segno distintivo e indelebile: uno “stigma”, secondo il termine greco con cui si indicavano le marchiature, mentre quello che usiamo oggi è di derivazione tahitiana da “tatau”, cioè incidere, decorare la pelle. Sin dagli albori dell’umanità questa pratica assunse una connotazione religiosa, come nell’antico Egitto; ma anche nel mondo cristiano è esistito il tatuaggio “devozionale”, di cui una tipologia particolare riguardava i pellegrini che si recavano a Loreto. Al fenomeno del tatuaggio “lauretano”, protrattosi per secoli nell’Italia centrale e sparito nel secondo dopoguerra, è dedicata la sezione centrale di una mostra documentaria in corso al Mudec, il museo delle Culture di Milano: Tatuaggio. Storie dal Mediterraneo (aperta fino al 28 luglio). Il percorso inizia con i primi “segni” trovati sul corpo di Ötzi, la mummia rinvenuta in Val Senales nel 1991, prosegue con alcune statuette egizie che presentano tatuaggi su braccia e gambe e con le riproduzioni di vasi greci raffiguranti il mito di Orfeo aggredito dalle donne trace tatuate, per culminare con la parte sul tatuaggio lauretano. Qui sono esposti venti stampini in legno utilizzati dai tatuatori lungo la strada che portava al santuario marchigiano, assieme a una serie di stampe con le stesse immagini devozionali: dal Crocifisso al Volto santo, dal Sacro Cuore alla Santa Casa. Un’usanza che nella seconda metà dell’Ottocento attirò l’attenzione di studiosi quali Cesare Lombroso, Antonio Stoppani e di una scrittrice, Caterina Pigorini Beri, sorella minore del più noto Luigi Pigorini.
È proprio quest’ultima, una delle prime etnologhe italiane, a scriverne senza preconcetti nel volume Costumi e superstizioni dell’Appennino Marchigiano (1889). Analizzando le tradizioni delle popolazioni di Abruzzo, Piceno e Umbria, la studiosa citò le scritte religiose o le immagini di croci, simboli della Passione o dello Spirito Santo sulle braccia soprattutto degli uomini, chiedendosi come mai nessuno ne fosse mai occupato prima. In realtà, come ricorda il curatore della mostra Guido Guerzoni, già una decina d’anni prima Lombroso aveva scritto del «divoto mircimonio» che avveniva nei pressi del santuario, pratica usata anche dai pastori di altre regioni che si tatuavano croci o i nomi dei santi patroni sulle braccia. Quanto avveniva a Loreto, tuttavia, aveva dimensioni molto più vaste, e non solo per la quantità dei fedeli coinvolti: lo racconta anche l’abate Stoppani descrivendo la scena «indecorosa» di una «fanciulla dal viso fresco, dall’aria ingenua e sorridente» che si fece tatuare anche lei il braccio. E ancora vari anni più tardi, nel padiglione marchigiano della Mostra di etnografia italiana a Roma nel 1911, venne presentata una coppia di sposi in procinto di farsi tatuare degli emblemi matrimoniali «secondo quanto avveniva a Loreto». A dare un’idea della vastità di questa usanza sono poi i 337 stampini in bosso e le relative 340 stampe che si conservano dagli anni ’70 al museo delle Civiltà, Arti e Tradizioni popolari di Roma, da cui proviene la selezione in mostra al Mudec.
Secondo Guerzoni «ci sarebbero altri santuari dove si praticavano tatuaggi religiosi - Lombroso cita quello di Caravaggio - ma non ci sono rimaste prove concrete come gli stampini di Loreto. A tatuarsi erano soprattutto contadini o lavoratori dei campi, anche se esiste una tradizione di tatuaggio aristocratico, in voga ad esempio tra i Savoia o gli Hannover, ma senza aspetti devozionali». Il motivo per cui questa pratica sia tramontata a fine anni ’40, spiega il curatore, è principalmente di ordine sanitario, ma non esclude una decisione politica esercitata dalla Democrazia Cristiana.
L’aspetto più interessante rimane l’origine di questa usanza che per lo studioso conduce a Gerusalemme, dove i pellegrini si facevano tatuare simboli religiosi, analogamente a quanto facevano i fedeli musulmani che si recavano alla Mecca. Anche se «rimane da stabilire la primogenitura dell’origine gerosolimitana o marchigiana del fenomeno», ovvero se furono i pellegrini e i crociati «tornati dal Levante a importare questa usanza in Italia», o se le due prassi «hanno avuto origini autonome e storie proprie. Il mistero rimane – conclude – ma spero che dopo questa mostra le ricerche riprendano con rinnovato vigore».