Mirko Basaldella, “Crocifissione”, 1968 - ©Governatorato SCV - Direzione dei Musei Vaticani
Fino al al 5 giugno, il Museo Diocesano Carlo Maria Martini di Milano ospita la mostra “La Passione. Arte italiana del ‘900 dai Musei Vaticani”, che presenta quaranta opere dei maggiori artisti del Novecento italiano, da Casorati a Carrà, da Marini a Rosai a Guttuso. La mostra è a cura di Micol Forti, della quale pubblichiamo qui un intervento, e Nadia Righi.
Quando, più di un anno fa, insieme a Nadia Righi, e al prezioso contributo di Francesca Boschetti, abbiamo iniziato a progettare la mostra “La Passione nell’arte italiana del ’900 dai Musei Vaticani”, aperta da oggi fino al 5 giugno al Museo Diocesano Carlo Maria Martini di Milano, non avremo mai potuto immaginare la straordinaria e drammatica attualità potentemente racchiusa in ognuna delle opere selezionate. Un’attualità non solo connaturata alla tematica, centrata sull’evento culminante e più “umano” della vita di Gesù, il Suo soffrire e morire quale supremo atto d’amore per l’umanità. Ma un’attualità che affonda le radici nella nostra storia, quella vissuta dai nostri padri e dai nostri nonni, che ha il nostro volto e si specchia nella nostra memoria. Le oltre quaranta opere scelte per l’esposizione, tutte provenienti dalla Collezione d’Arte Moderna e Contemporanea dei Musei Vaticani, raccontano il legame inquieto che ha caratterizzato il dialogo tra l’arte italiana e la Chiesa, nel corso del XX secolo. Un legame mantenuto vivo grazie alla sfida di raccontare quanto è custodito nelle Sacre Scritture e, soprattutto, la vita di Cristo. Una sfida che diventa necessità per l’impossibilità di sottrarsi al confronto con la propria storia, perché la vita e il sacrificio di Gesù, racchiuso nelle storie della Passione, riguarda l’intera umanità, a ogni latitudine, in ogni tempo. Così le opere di Montanari e Santagata del 1918, sono immerse nel clima di chi ha vissuto in prima persona gli stravolgimenti della Prima Guerra Mondiale; i lavori tra gli anni Venti e gli anni Quaranta, di Gerardo Dottori, Manzù, Marino Marini, Guttuso, Felice Carena, fronteggiano a viso aperto i soprusi della dittatura fascista e nazista e le a- trocità del secondo conflitto mondiale, accendendo i riflettori sulla condizione dell’uomo comune, senza filtri né abbellimenti, come nell’Uomo crocifisso di Ottone Rosai, del 1943, che pone se stesso sulla croce sullo sfondo di una città avvolta dalle fiamme. Ma anche in opere realizzate dal secondo dopoguerra (come quelle di Carlo Carrà o Salvatore Fiume, la potente Crocifissione di Pirandello, del 1973, o le Via Crucis di Pericle Fazzini, 1958, e Guido Strazza, 1962, per due chiese milanesi) la riflessione sulla Passione e soprattutto sulla Crocifissione di Gesù, riacquista senso e ragione alla luce del presente, facendosi carico, ogni artista con il suo stile e il suo linguaggio, del valore universale dell’episodio sacro e al tempo stesso della sua capacità di incarnare i dolori, le sofferenze, le domande, spesso senza risposta, della nostra contemporaneità.
In questo intreccio tra sacro e presente, tra universalità del messaggio cristiano e specificità della nostra storia, risiede quella caratteristica unica e precipua che Paolo VI riconosce all’arte, quando il 7 maggio del 1964, in Cappella Sistina, chiede alla cultura internazionale di collaborare alla costituzione della futura Collezione d’Arte Moderna e Contemporanea dei Musei Vaticani. Nel celebre discorso, che invito tutti i lettori a leggere o rileggere, il pontefice riconosce all’arte la misteriosa capacità di poter accedere a un Oltre e a un Altrove, rendendoli in qualche modo visibili, afferrabili, effabili. Un dono prezioso. Un arduo compito. Per meglio esemplificare il ricco ventaglio di richiami e sfaccettature che solleciteranno l’interesse e l’attenzione dei visitatori della mostra, può essere utile fermarsi su un dipinto del milanese Aldo Carpi, Figure e Crocifisso, del 1911. Grazie alle ricerche di Rosalia Pagliarani, che ha egregiamente studiato l’opera rimasta nello studio del-l’artista e praticamente inedita, è emersa la profondità dell’intreccio tra soggetto sacro e storia contemporanea. Realizzato in un periodo decisivo nella formazione spirituale dell’artista, in questo dipinto Carpi concepisce una originale iconografia. La scena si riferisce a un episodio della guerra italo-turca, o guerra di Libia, aperta il 30 settembre 1911. Il personaggio principale, in preghiera con le mani aperte verso il cielo, quasi in dialogo con il volto di Cristo crocifisso, vestito in abito bianco e con il caratteristico copricapo musulmano, la taqiyah, è Omar al-Mukh-tar, detto anche il “Leone del deserto”, capo spirituale dei senussiti di Cirenaica, un gruppo islamico di orientamento sufi che decise di schierarsi a fianco dell’esercito ottomano nei combattimenti di Bengasi. Siamo in ottobre, quando la missione dei padri Giuseppini vicino alla città viene assaltata, e i monaci si trovano in pericolo assieme ai ragazzi neri, tolti dalla tratta degli schiavi, di cui la missione si occupa, simboleggiati dal personaggio al centro. Per giorni la stampa italiana ne piange il massacro, ma a fine ottobre giunge la notizia che i monaci sono vivi, risparmiati dai nemici grazie all’intervento di Omar al-Mukhtar. Carpi rende omaggio a questo episodio di fratellanza rappresentando il religioso islamico non come un antagonista, ma come un compagno di preghiera e sofferenza. Una visione straordinaria per l’epoca e, forse, ancora oggi.