venerdì 15 gennaio 2021
In un libro Mauro De Cesare fa “parlare” il protagonista del gioco più amato e diffuso sul pianeta: una sfera che ha iniziato a rimbalzare in Cina nel 2500 a.C. e che nel corso dei secoli si è evoluta
Così il pallone si racconta
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Ah, se il pallone potesse parlare... Allora, il suo racconto comincerebbe così: «Già nel 25° a.C. mi chiamavano Tsu-Chu che, in cinese, vuol dire “palla calciata con i piedi”». Comincia così la surreale, quanto divertente “autobiografia” del pallone, Felice di essere preso a calci, scritta, anzi raccolta dall’ottimo collega Mauro De Cesare. Un’autentica summa della “storia di cuoio”. Una vicenda che affonda nella notte dei tempi, visto che i primi palleggiatori solitari vissero e danzarono in campo nel periodo dell’Impero Giallo di Huangdi. Gli inglesi saranno pure i padri del football moderno, ma 2500 anni fa lo zhuqiu fu la prima forma di competizione agonistica, in cui vinceva chi segnava più gol. Chi invece non era interessato al risultato ma amava dilettarsi con lo Tsu-Chu in modalità «giocoliere », andava di baida. I virtuosi del baida erano gli antesignani della scuola lusitana-brasilera o se volete gli antenati del guardiolesco “Tiki-Taka”. I cinesi comunque, secondo tradizione mercantile, smerciarono la sfera pallonara per il mondo, disinteressandosi del gioco. Non a caso sotto la Grande Muraglia, in 2500 anni di pratica e con miliardi di potenziali calciatori, non hanno ancora sfornato un solo fuoriclasse. Quello, il «gioco», tra una dissertazione filosofica e l’altra, venne teorizzato nell’antica Grecia, con lidi e spartani pronti a disputarsi l’egemonia per l’idea primigenia. Un’Odissea insomma, tant’è che il «gioco del pallone» anche Omero, alla cieca, lo mise dentro il suo poema, inventando di fatto il calcio femminile: a giocare – riporta – erano Nausicaa e le sue compagne.

Nell’antica Roma, come annotava nel Manuale del gol Vezio Melegari, un primordiale gioco del pallone era l’harpustum, italianizzato in «Arpasto». Non era certo il calcio odierno quello Fiorentino del XV secolo, più vicino al rugby per scontri frontali e risse caravaggesche. Per non parlare del Soule transalpino che con quella palla ripiena di viscere di animali, crusca, fieno e crine di cavallo, consentiva ai nerboruti “calciatori” francesi di utilizzare piedi, mani e bastoni. Insomma, giochi senza frontiere, quanto a limiti, confini spaziali e soprattutto privi di regole. Queste, vennero dettate nel 1863 in Inghilterra, da Ebenezer Cobb Morley, il quale, il 26 ottobre istituì la FA (Football Association): la prima federazione calcistica, in cui, il 30 novembre, lo Sheffield Fc fu la prima società affiliata. Anche se per un lustro il club continuò in autarchia seguendo regole proprie. Ma questo non cambiò la storia del nostro protagonista, il pallone. Segni particolari: «Una circonferenza tra i 68-70 centimetri e un peso che oscilla tra i 410 e i 450 grammi. E voglio precisare – parole del pallone ovviamente – non sono più leggero di una volta: sono solo più “veloce” per i materiali impermeabili con i quali sono confezionato. Non assorbono la pioggia, il mio peso resta invariato». A variare nel tempo sono stati i materiali. Si è passati dagli «stracci e i panni imbottiti avvolti in tela colorata» al caucciù. Di gomma è l’anima della camera d’aria. Però l’uomo calciante capì che la materia prima doveva essere la corteccia dura del cuoio. «Una camera d’aria in gomma e dodici strisce di cuoio legate tra di loro con lo spago», questo il prototipo del pallone che da 150 anni rimbalza negli stadi del pianeta. Ma gli spaghi erano stretti e duri, soprattutto per le fronti spaziose dei colpitori di testa che, spesso, dopo la battaglia uscivano dal campo feriti, con profonde cicatrici sanguinolente.

Per lenire le piaghe e rendere il gioco meno doloroso e sempre più avvincente, tre angeli dalla faccia pulita, due italiani d’Argentina, Tosolini e Polo, assieme all’ispanico Valbuena confezionarono il primo pallone con le «cuciture ridotte». E il pallone ringrazia: «Avevo una camera a valvola che si gonfiava a iniezione ». Questo era il Superball, il vero antenato del pallone Adidas («senza più cuciture e con pannelli saldati termicamente»), l’unico fornitore ufficiale di quasi tutti i campionati del mondo. Al Mondiale di Uruguay 1930 il marchio tedesco non c’era ancora, e il debutto alla prima rassegna iridata toccò al Model T. Pallone ancora “stringato”: sono le stringhe che tengono unite le strisce di cuoio, 11 come i calciatori delle 13 nazionali che vi presero parte. L’Italia non partecipò e la Celeste uruguayana oltre a portarsi il pallone da casa si prese anche la Coppa Rimet, battendo in finale l’Argentina (4-2). Quattro anni dopo, l’Italia del tenente degli Alpini Vittorio Pozzo (unico ct capace di vincere due Mondiali di fila, nel 1934 e nel ’38) imitò gli uruguagi. Mondiale casalingo sotto l’egida fascista che con il braccio teso salutava il pallone ufficiale della competizione, il Federale. Tredici stringhe ruvide e taglienti, per una sfera che, come il regime, gonfiava il petto gommoso, e il cuore di cuoio, ma impregnandosi di pioggia la palla diventava un macigno. Ma i muscoli d’acciaio e la testina d’oro del “Balilla” Giuseppe Meazza, resistettero, gridando con il Duce: «Vincere e vinceremo!».

Bis azzurro a Parigi, dove i francesi forgiarono il loro Allen ma ripescando anche il sudamericano Superball che sbarcava in Europa con i suoi «dieci esemplari». Allora, non era mica come oggi, che, in epoca di iperconsumismo, ad ogni gara decine di palloni spiovono verso il calciatore che ha fretta di riprendere il gioco. In quei primi Mondiali c’era un pallone solo a partita e dopo la Guerra, quando la Coppa Rimet riapparve a Brasile 1950 si riciclò il vecchio Allen francese, diventato nel frattempo Allen Super Duplo T. Schiaffino e Ghiggia, se lo accarezzavano quel pallone dai «bordi tondi», al termine del “Maracanazo”, il suicidio calcistico del Brasile, 16 luglio 1950, in cui l’Uruguay trionfò. Il Brasile si prese la rivincita in Svezia nel 1958 trascinato da Pelè che con il Top Star ai piedi, con i suoi 17 anni e 249 giorni divenne il più giovane marcatore (rete contro il Galles) e campione del mondo della storia dei Mondiali. Il pallone impermeabile brevettato dai danesi diventa il Swiss World Championusato a Svizzera 1954. Ma non è immune all’acqua Mr Crack il pallone di Cile ’62: un flop che contravvenne a tutte le norme europee. L’Inghilterra nel ’66 fece le sue fortune in campo e anche quelle dell’industria locale, la Slazenger che mise in produzione Challenge con il quale sir Bobby Charlton, per l’unica volta – fino ad oggi – fece salire i sudditi di sua Maestà la Regina Elisabetta sul tetto del mondo.

Il Mundial di Mexico ’70, quello della “partita più lunga del secolo”, Italia-Germania 4-3, si disputò con il Telstar: «Sono il primo pallone con i celebri dodici pentagoni neri su sfondo bianco, quello che ha rivoluzionato anche la trasmissione televisiva delle partite». L’occhio vuole la sua parte, il monopolio Adidas iniziò con un colpo di tacco estetico, da fuoriclasse come Pelè, ancora campione del mondo con la Seleçao. Dopo il Durlast di Germania ’74, apoteosi tutta tedesca, in campo con i bianchi del “Kaiser” Beckenbauer e in cassa per il fatturato Adidas, la “rivoluzione” partì dal Sudamerica. Da Argentina ’78 fino a France ’98, si danzò a ritmo di Tango. Il sogno di cuoio di tutti noi ragazzini degli anni ’70, che imploravamo i genitori per averlo, anche perché sostituisse il “falso Super Tele”: il pallone che lo calciavi a destra affinché andasse a sinistra. E le varianti del capostipite furono il Tango España, nell’82, il Mundial vinto dall’Italia di Enzo Bearzot, l’Azteca di Messico ’86, il nostro Etrusco simbolo di Italia ’90, e il . il Questrache Roberto Baggio calciò tra le nuvole di Pasadena: finale di Usa ’94, persa ai rigori dalla Nazionale di Arrigo Sacchi contro il Brasile. Il Fevernovadi Corea- Giappone 2002, un pallone da dimenticare: è quello che a fine partita stringeva tra le mani il corrottissimo arbitro Moreno che, di fatto, eliminò l’Italia del Trap. Fevernovada cancellare, anche per le traiettorie assurde che prendeva (eguagliato solo dal Jabulani a Sudafrica 2010) anche perché internamente era farcito di schiuma.

Memorabile invece il tedesco Teamgeist che, sotto il cielo di Berlino, nel 2006 incoronò l’Italia, di Marcello Lippi, campione del mondo per la quarta volta. Gli ultimi due esemplari Adidas, Brazuca a Brasile 2014 e Telstar 18 a Russia 2018, sono la metafora di cuoio del gigantismo e dello sfruttamento minorile, mai del tutto sanato: la schiavitù delle fabbriche, indiane e pakistane, dove piccole mani producono palloni d’oro lavorando per pochi centesimi l’ora. Gigantismo di Putin che per il Mondiale russo investì 12,8 miliardi di dollari (record assoluto) e il Telstar 18 più che un pallone è un marchingegno da vecchio Kgb: all’interno presentava un microchip per essere seguito con un app dallo smartphone. È la tecnologia bellezza. E ora, cosa aspettarci dal prossimo Qatar 2022? Gli sceicchi, dalla loro lampada di Aladino hanno fatto uscire il primo Mondiale di calcio invernale, dal 21 novembre al 18 dicembre 2022. Un tackle nel deserto. E in attesa del pallone ufficiale, lo sceicco al-Thani per quasi 2 milioni di euro si è accaparrato all’asta quello di Italia-Francia 2006. E su questo, il pallone chiude il suo racconto, e tace.

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