venerdì 8 maggio 2020
Uno studio riporta l’attenzione su una tipologia “anomala” di cui restano pochi esempi ma fino al XIII secolo piuttosto diffusa tra Oriente e Occidente
La chiesa romanica di San Carlo di Negrentino, in Canton Ticino (ma in antico parte della diocesi di Milano) conserva ancora la struttura a due absidi

La chiesa romanica di San Carlo di Negrentino, in Canton Ticino (ma in antico parte della diocesi di Milano) conserva ancora la struttura a due absidi - WikiCommons

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Sulla forma della chiesa sembra tutto chiaro: se storicamente le piante possono essere diverse, tutti i tipi (a croce latina o greca, basilicale – cioè senza transetto –, centrale e le varie combinazioni) hanno in comune alcuni elementi, ossia l’articolazione in navate concluse da absidi, in numero dispari: uno, tre, cinque. Persino la pianta circolare spesso è dotata di una abside o cappella principale che ne marca una percezione e un uso nella sua longitudinalità. Le cose non stanno proprio così. In passato le forme dell’edificio chiesa potevano presentare una varietà ai nostri occhi disorientante: chiese a due absidi, a una navata e due absidi, a due navate… È un mondo diffuso tra VII e XIII secolo prima in Oriente e poi in Occidente e tuttora poco noto ed esplorato, anche a causa della scarsità delle testimonianze giunte fino a noi, in Europa principalmente per la normalizzazione operata dalla Chiesa tridentina sul corpo della cattolicità – ma è altrettanto vero che queste forme “alternative” erano ormai cadute in disuso e già nel tardo Cinquecento risultavano incomprensibili.

A rivelarcelo sono le prime visite pastorali, fonti preziose su cui si basa in parte cospicua la ricerca di Ercole Ceriani e Laura Maletti confluita in Chiese ad absidi giustapposte. Il caso di San Giorgio in Ruginada nelle pieve di Incino e altri monumenti (SilvanaEditoriale, pagine 160, euro 28,00), che concentrandosi su un territorio particolare come quello dell’antica pieve di Incino, nei pressi di Erba (oggi diocesi di Como, un tempo terra ambrosiana) e sulla casistica delle chiese chiuse da una coppia di absidi, fa emergere, come scrivono gli autori, «un quadro di architetture, di componenti di arredo e di suppellettili quanto mai variegato e articolato». La maggior parte di questi edifici sono nati così, talvolta è documentabile la trasformazione di edifici monoabsidati, secondo un processo di adeguamento liturgico. E a particolari esigenze liturgiche dovevano rispondere queste tipologie, ma quali fossero è campo apertissimo: allo stato attuale è impossibile ricondurre univocamente alla dimensione battesimale o funeraria, o ancora alla coesistenza di riti diversi.

Le domande superano ampiamente le risposte. Come osserva Maria Antonietta Crippa nell’introduzione, questo repertorio evidenzia la parzialità, dell’approccio storiografico tradizionale che «privilegia le componenti costruttive e gli esiti estetici» dando luogo «a una storia dell’arte del costruire fondata sulla connessione tra valori formali, di genesi autoriale e pertanto costitutivi di “poetiche” che integrano anche il tema dell’ornamento, e l’incrocio fra tipo morfologico e sistema costruttivo nelle sue declinazioni tecniche». Un approccio che si è tradotto storicamente nella prassi classificatoria e in restauri «impoverenti se non distorcenti il senso di un’architettura». Tutto questo ha generato «un sostanziale e pervicace disinteresse per lo “spazio liturgico”» e per la varietà, potremmo dire la “biodiversità” rituale e devozionale tanto a livello geografico quanto cronologico. «Il sintetico e generico rimando a principi teologici o spirituali ha prodotto spesso poveri succedanei valoriali all’identificazione globale di senso dell’edificio chiesa». Questa ricerca, così interessante a livello storico, può fornire spunti e suggerimenti di riflessione anche per l’architettura sacra contemporanea: non tanto sotto la forma di citazione (dove il rischio, come sottolinea la stessa Crippa, è che non ci sia allineamento di senso tra la ripresa formale e i valori della liturgia) ma per un’idea maggiormente plastica di spazio, capace di trovare forme adeguate a una liturgia conciliare che sempre più va maturando la propria ricchezza oltre gli stereotipi con i quali spesso si confonde ciò che è chiamiata impropriamente – e le chiese biabsidate lo confermano una volta di più – tradizione.

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