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Il 13 maggio arriva in libreria Una fragile indipendenza. Conversazione intorno alla magistratura (SEB27, pagine 136, euro 15), libro-dialogo di Paolo Borgna, magistrato (nostro collaboratore ed editorialista), con Jacopo Rosatelli, ricercatore e analista politico, alla luce dei recenti scandali e dell’annoso dibattito sulla separazione delle carriere. Ne proponiamo un estratto dal quarto capitolo: “Nei panni degli altri”.
Rosatelli: La separazione delle carriere di giudici e magistrati dell’accusa è fra le questioni più annosamente dibattute. Dicevi prima che sei contrario, ma nel senso che vorresti maggiore circolarità tra le funzioni, comprendendo anche quella di avvocato.
Borgna: Io andrei oltre la 'guerra dei trent’anni' sulla separazione delle carriere con la proposta della circolarità delle carriere, che è una sorta di mossa del cavallo. Se la magistratura continua ad arroccarsi, invece, la separazione temo diventi inevitabile. Intendiamoci: io ho scritto fiumi di inchiostro contro questa ipotesi, anche perché sono stato pm, poi giudice, poi nuovamente pm, sempre nello stesso distretto. Questa posizione si è sempre fondata su un principio, ripetuto quasi come un mantra: bisogna fare in modo che il pm sia partecipe della comune cultura della giurisdizione, cioè che il pm sia in certo modo attratto verso la forma mentis del giudice. Ti confesso che negli ultimi anni ho visto, come accennavo, il fenomeno contrario: molti giudici - nello specifico molti giudici delle indagini preliminari - attratti nell’orbita del pm. Sì, parlerei proprio di un’attrazione psicologica e culturale verso l’impostazione del magistrato requirente e della polizia.
Rosatelli: Puoi fare degli esempi?
Borgna: La facilità con la quale il giudice delle indagini preliminari, il gip, concede la proroga delle intercettazioni anche per tempi lunghissimi. Il ruolo della procura, in questi casi, può essere davvero molto pressante. Di fronte a una tendenza che vede i gip appiattirsi sempre di più sulle richieste delle procure è abbastanza naturale che si rafforzi l’idea della separazione delle carriere come unico rimedio che possa garantire la terzietà del giudice. Detto questo, è evidente che la separazione delle carriere rischierebbe di trasformare i pm in superpoliziotti, ed è da questa preoccupazione che nasce la mia idea di circolarità.
Rosatelli: Le limitazioni che attualmente ci sono per il passaggio tra la funzione requirente e quella giudicante sono giuste?
Borgna: Sì, le condivido. Quando feci il tragitto procura-tribunaleprocura all’interno dello stesso circondario, cioè Torino, quelle norme non c’erano ancora. Sono state introdotte successivamente e trovo giusto che ciò sia accadu- to. Chi vuole passare da una funzione all’altra deve cambiare distretto di Corte d’appello, o come minimo circondario, cioè sede di tribunale, per evitare di doversi trovare a giudicare il lavoro di chi, fino al giorno prima, è stato il vicino di stanza.
Rosatelli: A proposito di rapporti con le persone 'comuni' che popolano i palazzi di giustizia, nel suo bellissimo Diario di un giudice – uscito nel 1955, suscitando scandalo e causando un procedimento disciplinare all’autore – Dante Troisi scrive: «Anche gli imputati dovrebbero indossare la toga. […] Un imputato vestito come i giudici e gli avvocati forse imporrà rispetto agli uni e agli altri che non gli prestano attenzione o gliene prestano quel tanto che è necessario per rafforzare l’opinione che già ne hanno. Ognuna delle due parti si palleggia l’imputato con la presunzione di sapere tutto di lui. Con la toga, forse, egli, colpevole o innocente, si vedrà simile a chi lo giudica e lo difende. Sennò questo segno serve unicamente a incutere timore e ad alleggerire le tasche». Vorrei chiederti qualcosa rispetto al tuo rapporto con gli imputati, con le persone che nella tua carriera di pm hai chiesto venissero condannate. Forse la mia è una curiosità sciocca, ma mi chiedo se ti sia capitato di metterti nei loro panni, se pensi di avere prestato loro la giusta attenzione.
Borgna: Il processo penale, ogni giorno, tratta il dolore delle persone. Non solo il dolore delle vittime ma anche quello dell’imputato. E, spesso, soprattutto quello dei parenti. Magistrati e avvocati maneggiano questo dolore, ne determinano il corso. A volte lo avverti, nello sguardo di una parte offesa o negli occhi dei figli di un imputato al momento della lettura di una condanna a molti anni di carcere. Come ho scritto nel libro sugli avvocati ( Difesa degli avvocati scritta da un pubblico accusatore, Laterza, 2008) il magistrato non può farsi sopraffare da questo dolore. Se si lasciasse trascinare nel gorgo delle vicende umane delle vite che il suo mestiere gli fa incontrare, il magistrato diventerebbe pazzo. Sarebbe immobilizzato, incapace di decidere. Questo non vuol dire che si debba «coprire gli occhi con la toga per non vedere», come scriveva Calamandrei. Non farsi trascinare dai sentimenti non significa essere sordi. L’equilibrio può essere difficile. Soprattutto se si è umanamente curiosi e senza ritenersi estranei a nulla di ciò che è umano: Homo sum, humani nihil a me alienum puto. Come gli assassini dei telefilm del tenente Colombo, anche gli imputati di un processo possono essere a volte odiosi, a volte simpatici. Tanto che in certi casi, soprattutto quando si tratta di reati in cui non ci sono parti offese, dispiace quasi dover chiedere o decidere la condanna. Certi imputati, piuttosto furbi, sanno cogliere, come dei rabdomanti, la simpatia o l’antipatia che suscitano sul pubblico ministero che hanno davanti. Ricordo un rapinatore professionale che, dopo avermi confessato l’ennesima rapina in banca, assumendo un tono confidenziale, mi disse: «Del resto, dottore, come diceva Bertolt Brecht, è più criminale fondare una banca che rapinarla…».
Rosatelli: Intuiva che tu fossi di sinistra e cercava di suscitare la tua simpatia politica...
Borgna: Probabilmente sì. Ovviamente, questi sentimenti devono restare fuori dal processo. Così come non deve affiorare l’indignazione morale per una condotta particolarmente ignobile. Indignazione, sdegno, simpatia, antipatia, sono lussi che il magistrato non si può permettere. Altrimenti, tanto vale mettere l’imputato nelle mani della folla affinché scelga tra Gesù e Barabba. Al netto di tutti i moti dell’animo, però, il giudice penale deve cercare di capire ogni aspetto della condotta del colpevole e, fin che è possibile, i condizionamenti che ha subito e i motivi che lo hanno spinto a delinquere. Ancora una volta: cercare di capire il «punto di vista dell’altro». Consentimi di citare Fassone – o per meglio dire, il suo bellissimo libro Fine pena: ora( Sellerio, 2015). Sono le parole che Fassone stesso si sentì rivolgere dall’imputato 'Salvatore' al termine di un processo di mafia: «Se suo figlio nasceva dove sono nato io, adesso era lui nella gabbia; e se io nascevo dove è nato suo figlio, magari ora facevo l’avvocato, ed ero pure bravo». E comunque, anche senza indugiare su questi accenni biografici, che hanno qualcosa di letterario, è il codice penale a dirci – al suo articolo 133 – che, nel quantificare la pena, il giudice deve tener conto, tra l’altro, del carattere del reo e dei suoi motivi a delinquere, della sua vita antecedente al reato e delle sue condizioni di vita individuale, familiare e sociale. Se anche l’arcigno e autoritario cavalier Alfredo Rocco, nello scrivere il suo codice nel 1930, dettava al giudice penale queste regole, possiamo ben dire che il cercare di conoscere e comprendere la figura del condannato non è espressione di fiacco sentimentalismo bensì di tendenza a una giustizia più umana.