Sembra un romanzo
Quando il papa cercò di fermare Hitler di Peter Eisner, a giorni in libreria (Feltrinelli, pagine 248, euro 20,00). Invece è un saggio dove pagine da
spy story si mescolano a carte d’archivio. Forse però
La vera storia dell’enciclica scomparsa di Pio XI, come afferma il sottotitolo, avrebbe avuto bisogno di maggiori confronti. Ricostruendo la vicenda del documento voluto da Pio XI per condannare razzismo nazista e antisemitismo e presentando i collaboratori del papa – come il generale dei gesuiti Ledóchowski, impegnato a impedirne l’uscita, e come Eugenio Pacelli, preoccupato di prevenire ritorsioni da parte di Hitler e Mussolini – tiene poco conto dei diversi registri delle strategie in atto. Trascurando i contorni, ad esempio, di una situazione come quella italiana, presto precipitata, ma che, nell’estate del ’38 vedeva ancora le gerarchie ecclesiastiche accordare fiducia al governo su una possibile via staccata dalla Germania quanto alle leggi razziali. E dando per certa la sintonia fra le attese di Pio XI e il testo preparatogli: cosa che invece non trova concordi tutti gli storici. Insomma si riprende qui un tema analizzato da diversi autori concentratisi sul rapporto Pacelli-Ledóchowski-Pio XI (ad esempio Emma Fattorini nell’einaudiano
Pio XI, Hitler e Mussolini o Georges Passelecq e Bernard Suchecky nella monografia edita da Corbaccio
L’enciclica nascosta di Pio XI), lo si arricchisce con inediti interessanti (il diario dell’ambasciatore William Phillips, lettere, appunti), ma si evita la questione della natura delle “obiezioni” al testo. Ideologiche o anche procedurali? Di contenuto o anche di metodo, come il gesuita Giovanni Sale ha documentato in due libri (
Le leggi razziali in Italia e il Vaticano e
Hitler, la Santa Sede e gli ebrei, Jaca Book 2004 e 2009)? rocediamo per gradi. Di fatto, qui, è John LaFarge – il gesuita americano autore di
Interracial Justice – il protagonista. Lo vediamo arrivare in piroscafo, nel 1938, dall’America all’Olanda. Quindi Eisner ne segue le orme dall’Inghilterra alla Francia, dall’Ungheria a Castel Gandolfo, dove il 22 giugno 1938 LaFarge è con Pio XI che ha letto il suo libro e gli chiede di scrivere l’enciclica, mettendo in chiaro – scrive Eisner – «che nella curia nessuno era al corrente della sua decisione probabilmente neppure Pacelli, e certo non Ledóchowski». Dunque un incarico segreto. Per poco, visto che Pio XI ne informa subito Ledóchowski. Da superiore di LaFarge, il generale prima gli consente di lavorare al testo a Parigi aiutato da due confratelli, Gustav Gundlach e Gustave Desbuquois, poi, a “enciclica” conclusa, gli dice che può tornare oltreoceano da Parigi. LaFarge preferisce però portare di persona a Roma il suo lavoro. Così rieccolo nella capitale nella settimana dopo il 20 settembre, rassicurato da Ledóchowski (che gli promette di leggere il testo e farlo avere al papa) e in attesa di istruzioni (invano). «È poco probabile che al papa sia stato comunicato che LaFarge si trovava a Roma. Quanto a quest’ultimo, era preso tra due fuochi: da un lato, il senso del dovere nei confronti del preposito, il suo superiore […] e, dall’altro, la spossatezza e il desiderio di tornare a casa. E a casa tornò». Così Eisner riassume quei giorni, chiosando che per tutto il resto della vita LaFarge si sarebbe rimproverato l’immediato ritorno. Solo a metà gennaio ’39 infatti Pio XI rintraccerà il testo noto, come
Humani generis unitas. Con quattro mesi di ritardo. Perché? In una lettera a LaFarge, già il 16 ottobre 1938, così Gundlach rinfacciava al confratello l’eccessiva lealtà nei confronti di Ledóchowski, che aveva messo a repentaglio «la fedeltà nei confronti del signor Pescatore [il papa,
ndr]».E continuava: «Se si considera per di più che il capo ha avuto bisogno di quattordici giorni per consegnare la cosa al cosiddetto “revisore” e da allora è rimasto per conto suo in silenzio, vengono in mente idee curiose. Dall’esterno si potrebbe vedere in tutto questo il tentativo, per ragioni di tattica e diplomazia, di esporre al sabotaggio – con la dilazione – il compito a lei affidato direttamente dal signor Pescatore». Giunto sul tavolo del papa malato tre settimane prima della morte, il manoscritto rimase negli Archivi vaticani sino agli anni Settanta. Pacelli, eletto papa, non ritenne di farlo conoscere. Solo per fiducia in Ledóchowski? Per coerenza con la posizione precedente? O per una prudenza ancor oggetto di polemiche? E se fosse stata l’occasione mancata? Eisner conclude il libro ammettendo «"l’unica cosa evidente è che papa Pio XI scelse una linea di assoluta eticità». Quanto al resto, nessuna convergenza verso autori che hanno negato – come Sale – «maneggi della Segreteria di Stato» parlando di un testo «bloccato per qualche tempo» da alcuni gesuiti perché non ritenuto «pienamente conforme alle direttive date in tale materia dal papa», o che – come padre Blet o Andrea Tornielli nel suo mondadoriano
Pio XII, hanno dato risalto a un altro fatto: «Nonostante i paragrafi che condannavano l’antisemitismo e il razzismo» l’enciclica «riproponeva il tradizionale antigiudaismo religioso del cristianesimo». E qui si aprono le domande sui ruoli dei due gesuiti coinvolti nella stesura asseme a LaFarge, le loro bozze, i loro interventi... Insomma: una storia complessa alla quale Eisner reca nuovi tasselli, ma che deve ancora essere scritta tutta, cercando tutta la verità.