I liberi e forti non vacillano
L’esperienza dei Popolari, dalla nascita del Partito fondato da don Luigi Sturzo con l’appello ai Liberi e forti all’avvento del Regime, raccontato nella specificità della Regione in cui aveva sede la Capitale e la Chiesa cattolica. Se ne occupa un saggio I Liberi e forti non vacillano. Il partito popolare italiano nel Lazio (1919-1926), Atlantide editore, euro 18, 268 pagg. L’autore, lo storico Luigi Giorgi, coordinatore delle attività culturali dell’Istituto Sturzo, porta alla luce uno spaccato molto interessante di un momento storico e di una realtà territoriale cruciale.
Lo fa utilizzando una serie di riferimenti e fonti inedite, in larga misura attinte nel prezioso e sterminato archivio dell’Istituto, vera e propria cassaforte della memoria storica dell’impegno politico dei cattolici nell’ultimo secolo. E dal quale traspare la caratteristica ancor più marcata, proprio nella Regione in cui è più forte la presenza della Gerarchia, di una “autonoma e organizzata partecipazione del cattolicesimo democratico alle vicende politiche nazionali”.
Nato nel 1919, il Partito popolare venne sciolto dal fascismo, come le altre forze democratiche, nel 1926. Il volume ricostruisce, utilizzando, oltre alla documentazione d'archivio, anche molti articoli di giornali dell’epoca, questo delicato equilibrio fra formazione, riferimento culturale cattolico e indipendenza delle scelte.
Una concordia discors, la definisce l’autore utilizzando un ossimoro latino, per descrivere la sottile dicotomia, fin dai primi anni di vita, fra “il partito come espressione autonoma di collaborazione politica ed organizzativa del cattolicesimo italiano e il più vasto mondo delle organizzazioni cattoliche”.
Ne scaturiva “una sorta di competizione fra i popolari come espressione autonoma, programmatica e politico-partitica del cattolicesimo democratico e le organizzazioni giovanili del mondo cattolico che vedevano questa autonomia programmatica come qualcosa di estraneo ad una formazione ecclesiale che ricavasse la propria capacità organizzativa direttamente dalla dottrina cattolica”.
A Roma il partito popolare intercettava i ceti più dinamici della borghesia, dai docenti ai bottegai, e in genere il mondo delle professioni, che chiedeva una maggiore partecipazione ai processi decisionali. “Il territorio laziale – spiega Giorgi – si caratterizzò per una saldatura che avvenne fra le istanze della borghesia e quelle del mondo contadino che chiedeva un miglioramento delle condizioni, con l’accesso alla proprietà dei campi coltivati”.
E un partito che aveva nel suo “dna” lo sguardo attento alle istanze del territorio, e la visione interclassista, non poteva non risentire delle specificità delle diverse realtà: “C’erano le aspirazioni autonomistiche da Roma del Viterbese, mentre nella Ciociaria giocarono un ruolo fondamentale il clero, le parrocchie, e il mondo contadino.
Ma fondamentale fu il contributo del circondario intorno a Roma, in cui la nobiltà giocò un ruolo importante. Mentre nella parte più a Sud, intorno a Terracina, in cui era forte la presenza socialista e comunista, il Partito popolare fece più fatica a radicarsi, soprattutto nel mondo operaio”.
Altra specificità, naturalmente, per un partito che nasceva “laico e a-confessionale” era – come detto – la presenza a Roma dei vertici della Chiesa con cui il nascente partito dovette rapportarsi. Fondamentale fu il contributo battagliero e paradossalmente “laico” portato dai parroci che con determinazione contribuirono a strutturare le leghe e i circoli giovanili. L’errore, col senno di poi, consistette nel non rendersi conto, da parte un po’ di tutti – i popolari, ma anche i socialisti, Gramsci, per ultimi i liberali – della gravità della situazione, illudendosi che potesse trattarsi di una fase transitoria, evitando così di fare fronte comune contro un pericolo invece incombente.
Lo stesso Sturzo non voleva apparentamenti in quella fase, convinto soprattutto che l’esperienza della borghesia liberale fosse ormai al declino e non andasse sostenuta. Nel congresso dell’aprile del 1923 – che si tiene a Torino, al teatro Scribe - Sturzo disincaglia il Partito popolare dall’alleanza con il fascismo e sancisce la incompatibilità con il movimento fascista che non era ancora regime. Ma una parte dell’elettorato non segue questa linea e accresce il consenso per Mussolini. Nei ceti popolari e operai, anche nei quartieri di Borgo Pio e Trastevere più vicini al Vaticano, tanti circoli restano però ostili al Regime, e il quotidiano del partito Il Popolo, fondato e diretto da Giuseppe Donati, sarà in prima fila a denunciare le responsabilità per l’omicidio Matteotti.
Emblematico quanto avvenne a Bassiano, paesino in provincia di Latina in cui due parroci (don Giulio e don Loreto Nardoni) scrissero al vescovo per denunciare l’incursione di 29 fascisti della vicina Sezze nel circolo cattolico. Dopo aver irriso e minacciato i giovani estrassero una pistola, in un’altra occasione schiaffeggiarono duramente un diciottenne.
Il vescovo scrisse al presidente dell’Azione Cattolica, la pratica arrivò sul tavolo del ministro dell’Interno Federzoni, ne venne investito il capo dello Polizia Crispo Moncada, ma il prefetto – incaricato di approfondire gli episodi – con una nota derubricò l’accaduto come un semplice alterco “dovuto allo stato di ebbrezza di uno dei fascisti giunti da Sezze”. Era il segno, uno dei tanti segni che, al di là degli aspetti locali della vicenda, dimostravano che “per il fascismo la presenza cattolica, in questo caso non popolare, fosse un problema sul territorio”. Ma il Paese, annota Giorgi, “era posto ormai sulla china che conduceva al Regime e alla dittatura”.