sabato 26 marzo 2016
HEALEY, la parabola umana e artistica di un grande
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Nel luglio 1985 Albert Collins, un pezzo di storia del blues elettrico, aveva in programma un paio di serate alla Royal Albert Hall di Toronto. Nella prima di queste qualcuno riuscì a convincerlo al beau geste: far salire sul palco per una manciata di minuti  un chitarrista cieco di 19 anni di nome Jeff Healey. Doveva essere un’ospitata compassionevo-le, fu invece l’acme del concerto. Collins, sbalordito dai virtuosismi di quel ragazzone biondo – che suonava la sei corde appoggiata supina sulle gambe, con cinque dita della mano sinistra sul manico, il pollice a spingere sugli acuti – rinnovò l’invito e qualche sera dopo Healey si ritrovò sul palco a fianco anche di Stevie Ray Vaughan, che del blues elettrico resta una leggenda.  Tutto partì da lì. Healey fu notato da un produttore, che gli propose un contratto. Nel 1986 uscì il suo primo singolo, See the light, nel 1988 il primo album, con un’interpretazione di Angel eyes di John Hiatt che ne fece la ballata dell’anno. Nel 1989 fu scritturato per una parte, un cameo, ne Il duro del Road House, il film con Patrick Swayze che lo rese ulteriormente popolare. Poi arrivò il secondo album nel 1990, Hell to pay – in cui Healey poté fregiarsi di un brano scritto da Mark Knopfler dei Dire Straits e suonato con lui, insieme alla voce di George Harrison nei cori di While my guitar gently weeps, a oggi la più bella cover del brano del chitarrista dei Beatles – e che lo proiettò in un tour mondiale. Tra nomination ai Grammy Awards e dischi di platino fu l’apice della sua carriera. Healey ne uscì spremuto come un limone. Seguirono altri tre album – live e raccolte di successi esclusi – ma arrivò l’ondata del grunge che ribaltò lo scenario rock e lui ne approfittò per tornare alle sue prime e indimenticate passioni: incidendo alcuni cd per una nicchia di appassionati con la rivisitazione del repertorio di Louis Armstrong, suonando anche la tromba, e dei principali protagonisti del jazz degli anni ’20 e ’30. «Il vero successo è poter vivere decentemente facendo ciò che si ama» disse in quegli anni. Il tutto durò fino a quando gli fu diagnosticato un sarcoma a una gamba, nel 2006, con la morte che sopraggiunse repentina il 2 marzo 2008.
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Ieri, 25 marzo, Jeff Healey avrebbe compiuto 50 anni. Merita di essere ricordato per il segno che ha lasciato nella storia del rock-blues e della chitarra elettrica, con il suo fraseggio di grande impatto emotivo, ruvido e lirico, sorretto da un talento per l’improvvisazione e accompagnato da una voce baritonale e fascinosa come poche. Ma merita di essere ricordata anche la sua parabola umana, non scindibile dalla forza dei suoi assoli: si rapportò al suo handicap come alla sua tecnica chitarristica, così poco ortodossa, sfruttando in modo mirabile le virtualità nascoste di ciò che a tutti sembrava soltanto una limitazione.  Healey era stato abbandonato alla nascita. La madre apparteneva a una ricca famiglia canadese, il padre era un taxista con moglie e figli. Una gravidanza non voluta, per cui quel bimbo, a pochi giorni di vita, fu dato in adozione a una coppia che viveva in un cottage sul lago Ontario: Bud Healey, pompiere, e Yvonne, casalinga. All’età di un anno al piccolo Jeff fu trovato un retinoblastoma, un tumore agli occhi. Per salvargli la vita i medici furono costretti e toglierli prima un occhio, poi il secondo. Difficile immaginare un inizio dell’esistenza più in salita. Però altrettanto grande fu la determinazione sfoderata nello scalare quella montagna. La forza di Healey venne dalla famiglia, da quei genitori che lo fecero sentire profondamente parte di loro – «Ogni giorno dimostravano uno smisurato amore l’uno per l’altro» ricordò in un’intervista – e che gli insegnarono a non cedere mai all’autocommiserazione. Healey frequentò da bambino un istituto per ciechi, poi si iscrisse a una high school equivalente di un nostro liceo artistico, e sul finire degli studi secondari tentò il salto nel mondo della musica professionale. Vincendo la sua sfida. La sua vita privata ebbe fasi accidentate – si sposò nel 1992, ebbe una figlia, si separò e si risposò nel 2003 ed ebbe un secondo figlio, anche lui affetto da retinoblastoma – e sarebbe stato il primo a rifiutare di essere ritratto in modo angelicato. Ciò che lo caratterizzò sempre fu l’energia, lo “sguardo” positivo sulla vita, che si rifletteva nel suo fare ironico e nel sorriso fanciullesco. «Posso dire con certezza, e lo dirò fino alle fine – confessò a una giornalista – che tutto ciò che mi è capitato ha avuto un senso. Le persone che Dio aveva chiamato a prendersi cura di me, mi adottarono. Furono pronte a riconoscere i miei problemi di salute e a procurarmi le cure di cui avevo bisogno. Posso dire con tranquillità che l’adozione è stata la cosa giusta per me». Affrontò anche l’avvicinarsi della morte con la gratitudine di chi sapeva di aver ricevuto molto, nonostante le apparenze – «Ho vissuto in 40 anni più di quanto molte persone hanno vissuto in 80 anni» rispose un giorno a un amico; il suo unico vero rimpianto, per quanto riguardava la cecità, era di non poter vedere il volto dei suoi figli – e con la fiducia chi sapeva, come cantò in Life beyond the sky, la chiusa del suo album di maggior successo, Hell to pay, che «c’è un tempo al di là di noi… il mondo gira e gli spiriti volano via, si innalzano insieme in una vita oltre il cielo... sulle ali di una colomba eterna».
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