La poetessa Margherita Guidacci (1921-1992) - Effigie
Margherita Guidacci è stata una delle poetesse più interessanti della sua generazione – e potremmo dire del nostro Novecento – ma soltanto negli ultimi anni l’attenzione critica verso la sua opera ha reso parziale giustizia a lei, che oggi compie il suo centesimo genetliaco. Nata il 25 aprile 1921 a Firenze, Margherita ha trascorso un’infanzia dickinsoniana: avide letture, molta introspezione, poche amicizie, una primissima adolescenza punteggiata di lutti con la prematura scomparsa del padre Antonio. Si avvicina alla poesia grazie al cugino (poeta in proprio) Nicola Lisi che, diciottenne, le mette in mano gli Ossi di seppia. Montale – assieme a Leopardi, Eliot, Rilke – segna il suo background letterario, orientandolo verso una linea espressiva di afflato metafisico, distesa e ragionata, dotata di “classicismo paradossale”, distante ugualmente dalle intuizioni orfiche e dal preziosismo della parola pura. Iscrittasi alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze, si laurea nel ’43 con un’ardita tesi su Ungaretti discussa con Giuseppe De Robertis.
Dopo qualche tempo, abbandona gli studi di letteratura italiana e incomincia a dedicarsi al versante angloamericanistico, avviando un imponente lavoro di traduzione spalmato su quattro decenni ( John Donne, William Blake, Elizabeth Bishop e altri). Ciò avviene per una ragione d’intenti che riguarda intrinsecamente la poetica: il suo fiuto la conduce sin dagli esordi a una callida iunctura, a un «accostamento drammatico di significati», lasciando in secondo piano le risonanze verbali, l’«accostamento magico di suoni». La Guidacci concepiva la poesia come istintività rabdomantica – e pare che lei avesse il “dono” –, la scossa elettrica dell’ispirazione ne doveva setacciare l’“acqua” (parola spesso ricorrente nei suoi versi), il flusso assoluto e cristallino del mistero essenziale.
Esordisce nel ’46 con La sabbia e l’Angelo ( Vallecchi 1946), una silloge egregia che nel titolo ha qualcosa di betocchiano e, al contempo, con un originale antiermetismo di fondo ci riporta alle terse atmosfere bibliche, alle modulazioni spiritualistico-cristiane della Firenze anni Quaranta («Il mondo è così diviso: in principio è la brezza; / e poi vi sono le cose che con voce o con gesto alla brezza rispondono; / e poi vi è anche la pietra crudele, che tronca il volo alla brezza»). D’altra parte, in un’intervista ha dichiarato di essersi «nutrita dell’Antico Testamento e in particolare i Salmi, l’Ecclesiaste, Giobbe ed i profeti, Geremia, Daniele ed Ezechiele». Per il severo timbro delle Scritture, unito a una sincera preoccupazione religiosa, si può accostare (senza sovrapporre) la Guidacci alla quasi coetanea e altrettanto notevole Cristina Campo. Al ’49 risale il suo matrimonio con il sociologo di origine sarda Luca Pinna da cui ebbe tre figli. Diviene insegnante di inglese nelle scuole secondarie, continuando parallelamente la sua attività di traduttrice e cementando la collaborazione con alcuni quotidiani.
I successivi testi poetici – Morte del riccio ( Vallecchi 1954), Giorno dei santi (Scheiwiller 1957), Paglia e polvere (Rebellato 1961) – approfondiscono la natura dicotomica che informa un po’ tutte le sue liriche: il nesso tempo-eterno, la lotta tra amore e morte, il ritorno al primigenio e alla nuda solidità degli elementi, persino il senso del dolore e della malattia (precipuamente in Neurosuite, Neri Pozza 1970), sempre filtrati da una dizione prosastica, comunicativa. Visivamente parlando, infatti, la poesia della Guidacci appare assai moderna e priva d’incrostazioni: i versi lunghissimi, whitmaniani – che non disdegnano talora un impulso civile – si sposano con una visione dell’esistenza prossima a conchiudersi nella più genuina preghiera («Dio mi ha chiamato ad arricchire il mondo / decretandone il semplice strumento: / basta un opaco granello di sabbia / e intorno il mio dolore iridescente!»). Nel ’76 è chiamata a insegnare Letteratura angloamericana all’Università di Macerata e passa poi nell’81 alla Lumsa di Roma.
Dal ’79, intanto, in collaborazione con Aleksandra Kurczab e Brenno Bucciarelli traduce tre opere letterarie di Giovanni Paolo II: Pietra di luce, Il sapore del pane e Giobbe ed altri inediti. Negli anni Ottanta si registrano ben otto sillogi, percorse da un misticismo che abbandona gli inquieti pudori delle prime raccolte per farsi sempre più universale: spiccano L’altare di Isenheim (Rusconi 1980), La Via Crucis dell’umanità (Città di Vita 1984), Il buio e lo splendore (Garzanti 1989) fino al postumo – Margherita morirà a Roma il 19 giugno 1992 – Anelli del tempo (Città di Vita 1993). A cura di Maura Del Serra è uscita lo scorso dicembre un’edizione aggiornata dell’intero corpus lirico, Le poesie (Le Lettere). Sara Lombardi, in un volume monografico dedicato all’autrice fiorentina, ha scritto che «in conformità con la sua formazione cattolica, la poesia per la Guidacci non sarà mai gioco letterario, ma esperienza estremamente seria». Niente di più vero. È questo bisogno di vita che la sua esperienza testimonia con forza. Ed è questa serietà specchiata che rende così audace, così dolcemente eversiva e attuale la lezione di Margherita Guidacci.