Marco Pantani scala con alle sue spalle Giuseppe Guerini - Archivio
Negli anni d’oro, quelli della giovinezza agonistica, per tutti era “Beppe turbo” per il solo fatto d’essere cresciuto vicino alle turbine della centrale idroelettrica di Vertova, in Val Seriana, nella Bergamasca, ma sulla sua strada ha trovato un coscritto di nome Marco Pantani, classe’70 come Giuseppe Guerini, che «nelle gambe aveva però la dinamite, altro che turbo…», racconta ad Avvenire.
Fin dalle categorie giovanili le loro strade si sono incrociate in più di un’occasione. Per “Beppe Turbo” Guerini il 14 febbraio è il giorno del suo genetliaco, ma da vent’anni è anche la ricorrenza triste di una perdita. Di un vuoto lasciato da un caro amico, da un ragazzo che come lui sognava di diventare grande in sella ad una bicicletta, seguendo poi la linea della vita che li avrebbe dovuti portare anche in quella stagione non più a tinte della primavera, ma dell’autunno.
«Il 14 febbraio è il giorno degli innamorati, delle promesse eterne, del mio compleanno, ma da vent’anni è solo il “giorno di Marco”. Con lui ho condiviso una passione, che per nostra fortuna si è anche trasformata in lavoro, anche se quando eravamo in bicicletta sia per me che per lui era gioia pura. Eravamo nati per scalare le montagne: io mi difendevo bene, ma lui era indubbiamente poesia. Era lì da vedere. Leggero come una piuma, che danzava sui pedali come un provetto ballerino. Noi eravamo comepiombo, lui era aria. Noi sputavamo sangue, lui sorrideva al sole».
Per 15 anni è stato nel mondo del professionismo, al suo attivo due tappe al Tour, una al Giro, corsa in cui può vantare due terzi posti finali. Cosa la lega a Marco?
L’amore per la bicicletta, anche se lui riusciva ad essere anche più pignolo del sottoscritto, che si è sempre considerato un tecnico, uno che con la bici ci parlava e che oggi ha la fortuna di lavorare in Bianchi, la bicicletta con la quale Marco ha vinto nel ’98 Giro e Tour. Siamo due ragazzi del ’70, entrambi capaci di scalare montagne, non è un caso che entrambi si sia vinto su un traguardo leggendario come l’Alpe d’Huez, anche se io una volta sola e lui due. Di lui sentii parlare a partire dalla categoria juniores, 17/18 anni, quando si comincia a fare un po’ sul serio e si inizia ad andare a correre anche fuori regione. Di lui si diceva che era un portento in salita e su questo terreno ha sempre dimostrato di saper fare cose fuori dal comune.
Quando ha pensato che sarebbe potuto diventare un grande?
Da dilettante ha fatto una crescita lenta ma graduale e costante. Al Giro Baby per tre anni consecutivi è sempre stato tra i migliori: terzo, secondo e infine primo. Era chiaro che aveva talento, che appena la strada gli si alzava sotto i pedali lui si esaltava. Disse che era solo un modo per abbreviare la sua agonia, ma chi gli era a ruota era davvero condannato ai lavori forzati. Staccarsi era una liberazione. In ogni caso solo al Giro 1994, capimmo che il suo percorso sarebbe stato molto diverso dal nostro. Con le corse più dure e selettive lui ha fatto un netto salto di qualità.
In salita aveva qualcosa di più?
Non aveva paura di nessuno, era consapevole del proprio talento e inseguiva le proprie ambizioni, che erano tante ed erano soprattutto alte. Era maledettamente orgoglioso, maledettamente tenace e fortissimamente performante. Se c’era da dare battaglia, lui c’era. Se c’era da scompaginare le carte e sorprendere qualcuno lui non ci pensava due volte. Per questo piaceva, per questo era Marco Pantani.
Cosa lo colpiva di lui?
Se perdeva, un attimo dopo già pensava alla rivincita, a come fare per provare a vincere. E poi voltava pagina e si divertiva, perché lui era un vero romagnolo, spumeggiante come il suo Sangiovese.
Come fu quella giornata di Selva Val Gardena.
Aveva 28 anni ed era già molto famoso, per i suoi exploit al Giro e al Tour ma anche per i suoi incidenti. Quel giorno avevamo obiettivi comuni: io vincere per la prima volta in carriera una tappa al Giro e lui vestire per la prima volta in carriera la maglia rosa. Andammo di comune accordo fino all’ultima discesa. Sulla Marmolada aveva sempre tirato lui, verso Selva i ruoli si sono scambiati. Abbiamo parlato solo nell’ultima discesa. Io gli ho detto: vinca il migliore. E lui con il suo ghigno tagliente: «Vincerà il più veloce vorrai dire, perché il migliore sono io». Come dargli torto.
Le ha mai tirato il collo?
Sempre, anche nella tappa di Selva che ho vinto. In più di un’occasione mi sono trovato al limite.
Quel giorno ha provato a staccarla?
Assolutamente sì. Faceva parte del gioco e soprattutto era giusto così: istintivo come pochi. Lui amava gettare per aria lo spartito e ci suonava come dei tamburi.
In gruppo soffrivate la popolarità e la personalità di Marco?
Razionalmente tutti pensavamo che faceva bene a tutti avere uno come lui in gruppo, perché era popolarissimo e piaceva da pazzi a tutti e qualcosa sarebbe ricaduto anche su di noi. Diciamo che in gruppo alcuni hanno patito la sua personalità e non sopportava il suo modo di correre senza regole e riferimenti. Erano gli anni di Indurain: fantasia poca. Con Pantani il cielo si è squarciato.