L’illustre scomparso «La Chiesa riconosce il canto gregoriano come proprio della liturgia romana: perciò, nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni, gli si riservi il posto principale». Sono parole della
Sacrosanctum Concilium, la prima delle costituzioni del Vaticano II, dedicata alla liturgia. Difficile affermare che sia stata presa alla lettera. Sul gregoriano, come sulla riforma della liturgia, sono esplose ed esplodono polemiche tra fazioni – ipertradizionalisti e rottamatori – che non aiutano a capire e uscire dall’impasse. «Una delle accuse che si fa al gregoriano è che impedisce alla gente di cantare – dice
Giacomo Baroffio, tra i massimi esperti in Italia –. Ma anche in molte chiese dove si canta in italiano l’assemblea partecipa poco, con il 'coretto' che fa tutto da sé... Sul gregoriano c’è un grande equivoco: la sua crisi non è musicale ma culturale. Il problema è accogliere la parola di Dio secondo una formula collaudata dalla tradizione. Il gregoriano non è musica, è preghiera». È difficile tracciare una geografia della pratica del gregoriano oggi. Non mancano in Italia le
scholae, molte delle quali 'autonome', composte da appassionati che studiano e poi prestano servizio liturgico, mentre altre sono legate più strettamente a un contesto ecclesiale. Oltre a Baroffio, nomi come Alberto Turco e Fulvio Rampi hanno rilievo internazionale. Eppure è impossibile mappare la sua presenza nella liturgia. E non solo nelle parrocchie. «In molte comunità religiose – prosegue Baroffio – oggi il gregoriano non è praticato né conosciuto. Rispetto ad alcuni anni fa è aumentata la disponibilità, specie tra le suore, che spesso cantano molto bene: ma sono abituate a farlo in italiano ». Per non parlare dei seminari: «Se i giovani sacerdoti non lo conoscono, non possono apprezzarlo e nella pastorale daranno priorità a mezzi ideali sotto il profilo emozionale e aggregativo, ma che non riescono a sedimentare. Il gregoria- no è, per così dire, un investimento spirituale a lungo termine. È paradossale come l’opposizione maggiore arrivi dal clero. Ci sono parroci per i quali la musica in chiesa pare tabù. Se fosse visto per quello che è, ossia uno strumento per meditare, il gregoriano non sarebbe contestabile». Certo, serve formazione: «Sembra una battuta, ma nelle parrocchie si spende di più per i fiori che per la musica ». E si arriva così all’esito paradossale di un gregoriano che, ciclicamente, diventa caso discografico: «Spesso sono operazioni commerciali che operano un nuovo tradimento. Il gregoriano viene proposto come musica esotica o terapeutica, infatti è così sfaccettato da poter rispondere alle esigenze più diverse. Ma il rischio è di interpretarlo come suono magico, ermetico». Un equivoco che sembra investire anche molti tradizionalisti. Ci sono altri equivoci da sfatare. A partire proprio da cosa intendiamo per 'gregoriano'. «Dobbiamo distinguere tra il gregoriano dei musicologi e quello della tradizione ecclesiale, che potremmo invece definire più propriamente monodia liturgica in lingua latina», spiega
Daniele Sabaino, docente di Storia della musica dei riti cristiani all’università di Pavia. «Per i primi è il patrimonio musicale costituito dal fondo antico e soprattutto dai
propria della messa, ossia i canti modellati sui testi specifici per ogni celebrazione. Quel poco che è rimasto nell’uso è invece l’ordinarium, ossia i brani fissi della messa, dal
Kyrie all’Agnus
Dei ». Il
Graduale Romanum, il volume che raccoglie il repertorio ufficiale, conta 18 diverse intonazioni: un ciclo modellato sull’anno liturgico. «Ma quella più diffusa è la
Missa de Angelis, che però è una composizione molto tarda, come anche antifone mariane come il
Regina coeli o la
Salve Regina ». A fare il calcolo, nel canto popolare sono rimasti una manciata di brani. «E per fortuna. Si tratta di un paio di messe, le più facili, e una dozzina di canti. Non è un caso che corrispondano al contenuto di un librettino pubblicato da Paolo VI nel 1975:
Jubilate Deo ». Il cui sottotitolo è rivelatore: «Canti gregoriani più facili, che i fedeli dovrebbero conoscere secondo l’intenzione della costituzione del Concilio Vaticano II sulla sacra liturgia»... Nella pratica il fondo antico è scomparso. «Nel momento in cui l’interesse è focalizzato sull’assemblea, quel tipo di repertorio non funziona più, perché al di sopra delle possibilità non solo di quella ma anche di molti cori». Eppure sarebbe ingenuo pensare che prima per il gregoriano fosse l’età dell’oro. In realtà è solo da metà Ottocento che, con l’iniziativa dei benedettini di Solesmes, questa forma viene recuperata e penetra grazie al movimento liturgico. Ma senza diventare davvero patrimonio popolare. C’è forse un vero e proprio mito del gregoriano con radici antiche. «Nel 1903 Pio X nel motu proprio
Inter sollicitudines sostiene che bisogna riportare il gregoriano nell’uso del popolo. Ma in verità non c’era mai stato. Gli studi avviati negli anni Sessanta da dom Eugène Cardine, che hanno portato alla semiologia gregoriana, hanno dimostrato quale raffinatezza interpretativa si annidi nel fondo antico. Una difficoltà che poteva essere riservata solo alle comunità monastiche e che oggi può essere affrontata soltanto dagli specialisti. E questo pone un problema oggettivo per l’inserimento nella liturgia». Insomma, c’è spazio oggi per il gregoriano nella Messa? «Sì, come per tutti i repertori e tutti i generi. Bisogna piuttosto individuare quale momento, quale scopo». L’ultimo equivoco è il richiamo alla partecipazione attiva dei fedeli, spesso confusa con l’omologazione: «L’assemblea è uno dei soggetti, ma non l’unico: il coro è essenziale».