Lo scrittore Graham Greene, nato a Berkhamsted nel 1904 e morto a Corsier-sur-Vevey il 3 aprile di trent’anni fa - Archivio
Il presente muta il passato. La tragedia di oggi è uno spartiacque definitivo. Il cinismo dell’anno scorso non è più quello di oggi, più imperdonabile, né la carità è la stessa. La misoginia di mezzo secolo fa è un sinistro precedente. E noi ora dovremmo rileggere tutti i libri per vedere cosa c’è dentro. E un resoconto che si è indecisi come iniziare, forse si può cominciare sette volte. Primo inizio. Per conoscere un autore bisognerebbe esserne il biografo. Tallonarlo per tutta la vita e tutte le opere. Leggere gli articoli, le prefazioni, oltre i romanzi. Sapere quali autori amava. Oppure aprire a caso trenta volte – tanti sono gli anni che ci separano dalla morte di Graham Greene – i due volumi delle Opere, puntare una matita a caso e leggere. A meno che, data l’ambiguità di tutto quanto lo riguarda, ogni prova risulti vana. Quanto valgono, oggi, i romanzi di Greene? Sono entertainment solo quelli che qualificava così, o tutti? Secondo. Si può accostare un autore senza un moto iniziale di simpatia? Aspettandolo al varco vedrai solo difetti. Affronto tutto Greene dopo la lettura di Un americano tranquillo, che mi lascia ammirato. Poi leggo Il console onorario, poi la cronologia della vita, e ora lo aspetto al varco e non gli trovo che difetti.
Rileggo Un americano tranquillo, cerco di dimenticare la biografia salvo l’infanzia. Mi fermo alla quinta pagina di Una pistola in vendita. Inizio con animo neutro Il treno per Istanbul. Mi sforzo di non confrontarlo con i grandi scrittori cattolici. Di non confrontarlo con i grandi giallisti, mi riesce meno. Tutti mi paiono superarlo, perfino sul suo campo della lotta bene-male. Non solo Dürrenmatt, Simenon, ma Vázquez Montalbán, Scerbanenco. Sfilo dalla libreria perfino L’uomo di Pietroburgo. Avrà letto Follet, Graham Greene? Se l’ha letto, non ha mai scelto una sua frase per epigrafe a un romanzo (sceglie Péguy, Hardy). Ciò può non stupire. Follet invece prende di Greene questa frase, giusto per L’uomo di Pietroburgo: «Non si può amare l’umanità. Si può amare solo la gente». O né l’una né l’altra. Terzo. È singolare che si sia dovuto difendere per tutta la vita dalla qualifica di scrittore cattolico. Sono uno scrittore, diceva, che «si dà il caso sia cattolico». Forse è vero alla lettera. Cattolico per caso per poter sposare la cattolica Vivien. Dov’è cattolico, dunque, Greene? Dove compare una luce, sia di sole, lume artificiale o fede? Nessuno dubita che Mauriac e Bernanos, Flannery O’Connor e Julien Green siano grandi scrittori e cattolici.
Di Greene, stando alle sole pagine, non è altrettanto evidente. E a considerarne la vita le cose si complicano. Il dubbio era la sola certezza? Forse la sola fede? Non a caso scelse il nome Tommaso entrando nella Chiesa cattolica. Un Tommaso che rimanda indefinitamente di porre il dito sulla piaga, timoroso di acquistare un barlume di certezza. Quarto. Cerco Greene nell’indice dei nomi della Storia della letteratura inglese di David Daiches e trovo la breve scheda biografica. Trovo la succinta bibliografia: l’autore è ancora vivo e il suo libro più recente è Un americano tranquillo. Nel manuale, mezza pagina che soccorre così così chi cerca di guardare nei romanzi. Soccorre forse qui: «La sua ironia, che sembra frequentemente investire gli stessi valori che egli si propone di difendere ». E qui: «Il suo è un cattolicesimo di tipo personale». Giudizio dalla valenza doppia. Un cattolicesimo che si gioca tra me e Dio, esclusivamente (il che è ben poco cattolico); e: un cattolicesimo a modo suo. Che ironizza sul bene – mai presente se non in negativo – giudicato sempre impuro, debole, e che amoreggia e dialoga preferibilmente col male, più veritiero e più leale interlocutore, chi sa. Quinto.
Guardando nell’opera: scrivere con l’occhio fisso allo spettatore cinematografico insieme che al lettore, antico appunto ma verità evidente; un cinismo chimicamente puro; compassione alquanto ben dissimulata da far temere della sua esistenza; nessun contrappunto, di stile, di atmosfere, e grigio ovunque, negli animi come in ogni scena. Il bel giudizio di Mario Soldati: «ha un dono per scoprire la bellezza, una bellezza davvero esistente e non immaginaria, di ciò che tutti (…) credono o dicono brutto, storto, sgradevole», ci informa di una qualità altrimenti invisibile nelle sue pagine, percorse da un vero istinto nel non vedere la bellezza. Sesto. Non amava i modernisti e lo era senza saperlo, essendo inglese e del tempo del modernismo. Credeva di scrivere di fatti, i quali nelle sue storie non stanno che a reggere introspezioni. I suoi personaggi, a differenza poniamo di quelli della Woolf, sono introspettivi a due o a tre. Introspezioni in dialogo, e ognuno non si muove di un centimetro dalle proprie convinzioni, semplice resa al proprio carattere. E «plumbeo», questo aggettivo di cielo da letteratura poliziesca, è propriamente il grigio fisso di ogni pagina di Greene, salvo le eccezioni di In viaggio con la zia, di Monsignor Chisciotte. «Chi conosce la propria debolezza è realmente più forte di chi crede ciecamente alla propria forza», scrive Pierre Reverdy.
I personaggi di Greene non conoscono che la propria debolezza ma ciò non li rafforza. Uomini che si confessano le proprie mancanze orgogliosamente, capaci di autocommiserazione, non di autoironia. E poi quella acrobatica, equivoca, mistica della 'slealtà', nei personaggi e ancora una volta nell’autore. Greene sembra dubitare – i suoi protagonisti si assomiglano troppo, e troppo assomigliano all’autore – perché altri hanno fede, a parer suo sempre impura, dubbia. Settimo. Oppure ai classici non deve perdonarsi nemmeno una debolezza. Devono leggersi spietatamente, come ingiustamente si leggono gli esordienti. Di più e di nuovo: la tragedia cambia il segno di ogni cosa. Da un anno a oggi sono mutati il concetto di mano, di città, di strada. Il concetto e la realtà di occhi e di casa. L’idea di prossimo. Cos’è la distanza tra le persone, fisica e morale, è un’altra realtà stravolta. La solidarietà e la compassione non sono quello che erano. Ogni sprezzo è più insopportabile. Al cinquantesimo dalla morte di Greene, forse si leggerà diversamente. Non oggi, al trentesimo. Se si riscrive sempre lo stesso libro, solo uno è quello buono. Solo in uno, in due, si trova quanto c’è negli altri alla massima intensità, purezza e più fatalmente. Tutti sono scritti e uno solo accade. Per Greene potrebbe essere Un americano tranquillo.