Il compositore e regista tedesco Heiner Goebbels - harald hoffmann
Che sia un personaggio fuori dal comune lo dice già il suo curriculum. Studi musicali, ma anche di sociologia. A Francoforte, dove vive dal 1972, dopo essere nato il 17 agosto 1952 a Neustadt/Weinstrasse – mette da data per esteso nella biografia sul suo sito. Figlio di un clima culturale e politico ben preciso, quello della Germania degli anni Settanta. Compositore e regista. Messe, le due facce della sua personalità artistica, sullo stesso piano. «Perché non faccio differenza tra comporre musica, scrivere un testo fatto di parole, imbastire un movimento o disegnare uno spazio con le luci». La conferma che Heiner Goebbels è un personaggio fuori dal comune l’hai parlandoci. Per farti raccontare il perché di A House of Call. My Imaginary Notebook, pagina del musicista tedesco che si ascolta in prima italiana al Festival MiTo disegnato da Giorgio Battistelli, domani alle 18 all’Auditorium Rai Arturo Toscanini di Torino e martedì alle 21 al Teatro degli Arcimboldi di Milano. Sul palco l’Orchestra sinfonica nazionale della Rai diretta da Vimbayi Kaziboni con la regia luci dello stesso Heiner Goebbels e la regia del suono di Norbert Ommer. «Non aspettatevi un concerto tradizionale – avverte Goebbels – di quelli che si ascoltano in Europa, impaginati attingendo esclusivamente al patrimonio culturale europeo».
Cosa dobbiamo aspettarci, allora, Heiner Goebbels, dal suoHouse of Call?
«Innanzitutto voci dal mondo, voci virtuose e toccanti provenienti da Namibia, Georgia, Armenia, Kazakistan, Iran, Colombia e molti altri Paesi. Fuse nel mio Notebook immaginario terminato nel 2020 in una doppia forma, la composizione dell’opera orchestrale e il registro materiale della ricerca in forma di libro».
Ma anche quel mix di musica e performance che caratterizza le sue partiture?
«A House of Call è un ciclo di richiami, invocazioni, appelli, incantesimi, preghiere, discorsi, poesie e canzoni per grande orchestra. Ma non è l’orchestra a fare la chiamata. Essa si confronta con le voci. Le presenta, le sostiene, le accompagna, risponde o si contrappone ad esse, come in un responsorio laico. Suoni e linguaggi distinti, richiami dal passato o dal mio personale habitat, voci particolari, materiale tradizionale, rituali, letteratura che vanno a formare un canzoniere per orchestra suddiviso in quattro capitoli: Pietra Forbici Carta, Grana della voce, Cera e violenza, Quando le parole sono scomparse».
Invocazioni, preghiere poesie. Perché la preghiera? Perché l’invocazione? Perché la poesia?
«Non chiedetemi perché, perché, perché. Il percorso artistico, come solitamente lo si intende per un compositore, fatto di idee e scrittura, per me non è un processo lineare. Conosco compositori che si alzano alle 6 del mattino e iniziano a scrivere subito e già nell’ordine corretto. Io non riesco a lavorare così. Dormo a lungo e anche di giorno aspetto sul divano finché il mio subconscio non articola qualcosa che mi sorprende. E lo faccio diventare musica, parola, immagine…».
Per cosa pregare oggi?
«Bella domanda. Non mi considero una persona religiosa, ma ho avuto un’educazione cattolica e ho un forte affetto per i brani o le parole meditative e ripetitive, non importa se si tratta di un rituale indigeno o di un inno della chiesa medievale o di un testo di Gertrude Stein».
Quale il ruolo spirituale della musica oggi?
«Aiutarci a raggiungere zone dentro e fuori di noi che non possiamo evocare o controllare consapevolmente?».
La pone come una domanda, ma può andare bene anche come affermazione… Allargando, invece, lo sguardo, quale il ruolo oggi della musica contemporanea? Quale la sua idea di musica contemporanea?
«E qual è il ruolo del giornalismo riguardo alla musica contemporanea oggi? Le chiedo io. Non ho risposte pronte, non ho un’idea particolare della musica contemporanea, non ho un sistema da proporre, una formula da applicare. Creo la musica nella quale credo, sia attraverso l’improvvisazione che attraverso la composizione, per invitare il pubblico a una nuova esperienza, qualcosa di cui non hanno sentito parlare o a cui non sono abituati. E non deve essere necessariamente musica, può essere un’immagine invisibile...».
La sua attività artistica si muove tra teatro musicale, prosa, cinema, installazioni d’arte, infatti.
«Non faccio molta differenza tra comporre musica o scrivere parole per un libretto o creare con suoni, luci, spazio, movimenti o macchine. Mi interessa la relazione “polifonica” tra questi mezzi dove la luce può essere importante quanto la musica e viceversa. Siamo tutti più attenti e partecipi all’evento artistico quando il rapporto tra le varie componenti coinvolte è imprevedibile, quando i diversi elementi si invertono o quando le nostre consuete categorie di giudizio vengono scombinate. Mi piace quando non esiste una gerarchia evidente tra i mezzi: il testo, ad esempio, non deve sempre essere per forzala cosa più importante».
Eppure ha collaborato a lungo con un personaggio che ha fatto della parola il suo mezzo di comunicazione privilegiato, Heiner Müller, drammaturgo, poeta, saggista.... Cosa ha imparato dallo scrittore tedesco?
«La riduzione all’essenziale, la lettura e la diffidenza nei confronti dei testi. Ho ammirato la sua generosità personale e il suo umorismo tanto quanto la sua lungimiranza politica».
Musica, ma anche immagini a MiTo che le dedica un’ampia vetrina. Oltre a A House Of Call si vedrà anche To Stage the Music, un documentario realizzato da Giulio Boato. Che effetto le fa?
«Essere il soggetto di un documentario è qualcosa per me di fastidioso, un contenitore nel quale non mi sento a mio agio e dentro il quale non riesco ad essere spontaneo. Anche per questo ho stima e ammirazione per Giulio Boato, per la pazienza che ha avuto con me. Detto questo è stato particolarmente interessante il fatto che potesse seguirmi per un periodo piuttosto lungo durante la creazione di questo pezzo».
La musica contemporanea ha una diffusione e una fruizione diversa tra Germania ed Italia. In Germania la si ascolta sin da piccoli con partiture commissionate e scritte ad hoc per loro.
«Penso che in Italia ci sia un po’ un’idea troppo idealizzata della cultura tedesca, in particolare per quel che riguarda i cosiddetti programmi educativi delle istituzioni classiche come sale da concerto o teatri d’opera».
Che, però, ci sono. Quale, allora, l’importanza di avvicinare alla musica le giovani generazioni?
«La musica ha la possibilità di essere meno ideologica rispetto ad altre forme d’arte. Non solo, essendo così “astratta” è aperta alle più diverse interpretazioni, lascia spazio all’immaginazione e al pensiero. Certo, in Germania e in tanti paesi europei ci sono percorsi educativi per i più piccoli, la speranza è che non servano solo per costruire oggi il pubblico che domani dovrà riempire le platee per programmi d’altri tempi».