L’attore Remo Girone, sul palco del Teatro Franco Parenti con “Il cacciatore di nazisti”
«Il mio amico ebreo Moni Ovadia, attore straordinario e grande studioso del Talmud, mi ha raccontato una barzelletta molto divertente. Due capre pascolano in un campo, ma da mangiare trovano solo una pizza di ferro con la pellicola in cui sta scritto: Il Gattopardo di Luchino Visconti. Una la lecca e dice: «È salato!», però se la mangiano e sazie si addormentano sotto un albero. Al risveglio una fa: «Non era mica male però?» E l’altra capra gli risponde: «Sì ma il libro era meglio! ». Sorride Remo Girone, che ha appena finito di recitare un testo lacerante come Il cacciatore di Nazisti. L’avventurosa vita di Simon Wiesenthal. E la prima riflessione dopo aver assistito allo spettacolo, semplicemente struggente, è: finché ci saranno voci autorevoli, testimonianze forti e credibili, anche teatrali, come quelle che porta in scena Remo Girone, allora forse lo spettro dell’oblio non si impossesserà della Memoria degli ebrei sterminati dal boia nazifascista. E forse, anzi dobbiamo sperarlo, la recente profezia della senatrice a vita Liliana Segre, «la Shoah tra qualche anno sarà soltanto una riga sui libri di storia», non si avvererà. Storie come quelle di Simon Wiesenthal, continueranno ad essere tramandate, lette e recitate, in maniera straordinaria come ha fatto Remo Girone nei quattro giorni ad alta intensità emotiva al Teatro Franco Parenti di Milano e come farà anche nelle repliche di stasera all’Auditorium di San Vito al Tagliamento e poi al Teatro Comunale di Carpi (28-29 gennaio). Il cacciatore di nazisti, nell’adattamento teatrale di Giorgio Gallione racconta la vita straordinaria di un salvato, sopravvissuto a ben cinque campi di sterminio che nel suo Centro di documentazione ebraica di Vienna, dove in pratica visse fino a 95 anni, Wiesenthal lavorò ogni giorno per la verità e la giustizia dovuta agli 11 milioni di morti dell’Olocausto. Concetti, quelli di verità e giustizia, che un attore di lungo corso come Remo Girone ha ben chiari in mente fin dagli esordi teatrali, avvenuti nella compagnia dei filodrammatici di Asmara, in Eritrea, dove è nato nel 1948, da una famiglia di emigrati. «Papà ex operaio Fiat aveva aperto un’officina meccanica e io lì ho compiuto i miei studi liceali e poi l’università, Economia e Commercio, per arrivare a un esame dalla tesi che noi italiani dovevamo discutere all’ateneo di Bari, dove un professore non mi fece laureare… Ma poi molti anni dopo una laurea honoris causa me l’hanno data, assieme a Giuseppe Rotunno, Marcello Gatti e Giuliano Gemma, l’ho incorniciata e regalata a mia madre che ci teneva tanto…».
La vera laurea però glie l’ha data il teatro, dove aveva già affrontato il dramma indelebile dell’Olocausto.
Con mia moglie, l’attrice Victoria Zinny, al Festival di Spoleto del 1978 avevamo recitato un testo molto forte come L’Accademia Ackermann di Giancarlo Sepe. E qualche anno fa, al Quirinale, sempre con Victoria abbiamo letto le lettere dei deportati italiani, con Noa che inframezzava la nostra lettura con la sua fantastica voce di cantante e in quell’occasione abbiamo conosciuto la senatrice a vita Liliana Segre e un altro ebreo sopravvissuto ai campi di sterminio, molto simpatico, che ricordava in maniera toccante... Sono sempre stato affascinato dagli scrittori ebrei, ho letto praticamente tutto quello che ha scritto Isaac Bashevis Singer. La mia coscienza riguardo alla Memoria, nel tempo si è rafforzata vivendo nel Rione Monti, dove ogni mattina cammino tra le “pietre d’inciampo”. E poi c’era un signore ebreo, un bancarellaio con cui ero diventato molto amico. Ho lavorato con attori ebrei: Arnoldo Foa e Franca Valeri, molto simpatica: facemmo Il bell’indifferente di Cocteau, spettacolo troppo divertente.
Qualche risata al pubblico la strappa anche il suo Wiesenthal. Ma come è avvenuto l’incontro con Il cacciatore di nazisti?Avevo letto i suoi libri, visto documentari, interviste, i film che gli hanno dedicato e la miniserie in cui è interpretato da Ben Kingsley e questo lo racconto anche nello spettacolo che Gallione mi ha cucito addosso come un abito perfetto e di ciò gli sarò sempre grato. Quello che mi ha colpito di Wiesenthal è il fatto che un uomo per 58 anni ha avuto la costanza di inseguire quei criminali di guerra, messo in piedi un archivio con 22.500 nomi di colpevoli dell’Olocausto ed essere riuscito a consegnarne alla giustizia 1.100. Tra questi i famelici Adolf Eichman, il pianificatore della “soluzione finale”, Heydrich, Franz Stangl, comandante a Treblinka e Sobibor e Karl Silbebauer, il sottufficiale della Gestapo che arrestò Anna Frank. Wiesenthal ha compiuto tutto ciò per fa sì che tutto quel male non si ripresenti, perché gli eredi del nazismo circolano ancora e vivono per seminare odio e nuove guerre.
La maggior parte delle vittime di ogni guerra sono bambini e ne Il cacciatore di nazisti, sono i piccoli ebrei.
Tra le tante figure che affiorano nel mio racconto ci sono Anna Frank che non si è salvata ma ha lasciato in eredità quel Diario che è uno schiaffo alle coscienze sporche dei negazionisti dell’Olocausto. E poi Masha Rolnikaite, la bambina ebrea lituana che mandò a memoria i pezzi del suo diario e che poi una volta liberata dal campo di sterminio, nel 1945, ha potuto metterlo su carta ( Devo raccontare, in Italia è pubblicato da Adelphi). Wiesenthal ricorda i gemelli strappati a una madre straziata dal dolore per la loro perdita. E poi gli esperimenti dell’«angelo della morte», il dottor Josef Mengele - il grande rimpianto del cacciatore di nazisti che non era riuscito a catturarlo personalmente - il quale sperimentò sugli occhi dei bambini ebrei: voleva colorarli d’azzurro e non riuscendoci mai li condannava a morte. Un orrore solo a pensarci…
Il nostro orrore nazionale si chiama ancora mafia. L’arresto del boss Matteo Messina Denaro non può che rimandare alla serie tv La Piovra in cui lei interpretava il “malefico” Tano Cariddi.
Un personaggio antesignano di questa nuova mafia dei “colletti bianchi”. Tano è un po' il Raskonijov di Delitto e castigo, che uccide perché sostiene che ci sono uomini al di sopra della morale comune, come Napoleone che era il suo mito. Ecco, Tano Cariddi ha un po’ questo tratto dostoevskiano, non diventa mai un affiliato della mafia, ma è un uomo senza scrupoli, uno squalo della finanza animato da superomismo, come Raskonijov. Anche La piovra, come molti film sul genocidio degli ebrei, credo che sia stato utile a formare una nuova coscienza etica nel pubblico, e non a caso tempo fa qualcuno ha detto che quella serie è «un patrimonio morale della Rai». Personalmente, grazie al successo internazionale de La Piovra, si sono aperte le porte di Hollywood: ho girato film come La legge della notte con Ben Affleck, sono stato Enzo Ferrari in Le Mans66-La grande sfida di James Mangold e con Denzel Washington ho appena preso parte a Egualizer 3 in cui interpreto un medico di un piccolo paesino italiano.
Risaliamo sul palco: qual è il suo messaggio finale alla vigilia del Giorno della Memoria...
Viviamo in un mondo in guerra che fa piangere tutti i giorni e allora nello spettacolo viene in soccorso Amos Oz che ha detto: «Se non ti restano più lacrime per piangere, non piangere. Ridi». Il mio messaggio non può non essere che quello di Wiesenthal che ai giovani chiede di imparare dalla storia per difendersi. E a noi tutti, dal palco ci saluta dicendo: «No dimenticate mai, mi fido di voi».