domenica 25 febbraio 2024
Dopo il Salvator Mundi barocco a Fiumicino approdano tre vetrate da Santa Croce, Firenze. Al di là del banale pro e contro, con quale metodo si può "misurare" la qualità dell'operazione?
Le vetrate di Giotto, installate in un box protettivo, nel Terminal 1 dell'aeroporto di Fiumicino, Roma

Le vetrate di Giotto, installate in un box protettivo, nel Terminal 1 dell'aeroporto di Fiumicino, Roma - Ansa

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Nel corso dell’ultimo anno, milioni di persone – attraversando il Terminal 1 dell’aeroporto di Fiumicino – si sono imbattute nel busto del Salvator Mundi attribuito a Gian Lorenzo Bernini, magari prendendosi un attimo per poterlo ammirare, girando lo sguardo mentre cercavano il gate del volo che le avrebbe condotte su una spiaggia tropicale o verso un incontro dall’altra parte del mondo. L’iniziativa, frutto di un accordo tra Aeroporti di Roma e il Ministero dell’Interno, a cui afferisce il Fondo edifici di culto, ha suscitato reazioni contrastanti: da un lato, entusiasti sostenitori l’hanno recepita come geniale trovata per avvicinare il grande pubblico al linguaggio dell’arte; dall’altro, disillusi osservatori ne hanno rilevato un effetto mortificante per il patrimonio, tale da assimilare un grande capolavoro alla stregua di un’offerta da duty free. È degli ultimi giorni la decisione di replicare l’esperienza glance media (letteralmente: attrarre attenzione in un instante) già sperimentata; nei prossimi mesi, i viaggiatori in transito a Fiumicino incontreranno - tra un club sandwich e una palina energetica per gli smartphone – tre vetrate giottesche provenienti dalla Basilica di Santa Croce a Firenze. L’idea del capolavoro artistico immerso nel flusso inarrestabile dei viaggiatori resiste e si rinnova: diventa un “fenomeno”, dunque, che merita attenzione e qualche ragionamento.

Nel mondo dei beni culturali, la parola chiave degli ultimi anni è stata “valorizzazione”: dare valore, attribuire rilevanza a capolavori più o meno conosciuti, ai grandi monumenti e ai piccoli tesori nascosti. Ma come misurare questo riconoscimento? A cosa equivale questo “valore”? Per molti, si tratta di una presa di consapevolezza, di un “prendersi cura” della storia, del lascito di bellezza e memoria che le passate generazioni ci hanno tramesso; per altri, il termine andrebbe inteso, piuttosto, in termini di potenziale sviluppo, di capacità di attrarre turismo e generare ricchezza. Sia chiaro: non c’è nulla di male nel pensare che il patrimonio artistico possa favorire un’economia fiorente (purché sostenibile); siamo tutti felici e orgogliosi di accogliere turisti nei nostri musei, nelle città d’arte e nei borghi che punteggiano il Bel Paese. Semplicemente, riteniamo sbagliato confondere le due cose: l’arte si valorizza innanzitutto qualificandone la fruizione, un termine che andrebbe recuperato e ragionato. Nelle altre lingue, lo si può tradurre soltanto come “esperienza”; in Italiano, l’espressione indica un processo di arricchimento spirituale e culturale che deriva dall’incontro con l’opera d’arte, il godimento che se ne trae e non la mera “utilità”, producendo in noi una trasformazione interiore e la conquista, potremmo dire, di nuove idee e di una diversa capacità di vedere.

Gli studi svolti sul comportamento dei pubblici dei musei (si usa il termine al plurale, proprio per distinguere le aspettative di ognuno e per rendere più efficace lo sforzo di raggiungere l’interesse di tutti) hanno fatto comprendere che il successo di un evento espositivo non si misura nel numero dei visitatori, ma nel risultato di apprendimento e di benessere che si è potuto raggiungere. L’opera d’arte deve poterci parlare, raccontando una storia che sia rilevante per il nostro presente, accendere curiosità ed emozioni: per fare questo si elaborano percorsi di visita e strumenti di mediazione, si orchestrano scenografie allestitive capaci di esaltare le proprietà espressive del manufatto esposto, valorizzandolo. E non è superfluo ricordare che nella motivazione ad apprendere – lo spiegano illustri pedagogisti – ciò che appare gratuito e immediato risulta ai più come scontato: sempre a disposizione, non esercita il fascino di ciò che comporta un impegno, persino un sacrificio per poter essere ottenuto.

La presenza dei capolavori in aeroporto non va respinta in modo ideologico: è apprezzabile il desiderio di illuminare con l’arte il tempo prolungato delle attese e di fecondare lo stato d’animo sospeso di chi si appresta a compiere lunghe traversate. Non va dimenticato, tuttavia, che l’incontro con l’opera d’arte richiede un contesto appropriato, un isolamento che permetta a chi osserva di riconoscere l’oggetto e di ritrovare se stesso, in un gesto di raccoglimento e di meditazione. E questo a tutela dell’opera (affiora spontanea la parola “rispetto”) che si vorrà preservare dai riflessi delle luci, delle valigie fluorescenti e dei tapis roulant, ma anche del viaggiatore-visitatore, che da quell’incontro potrà realmente “trarre frutto”, riuscendo a discernere la differenza tra un costoso accessorio esposto in vetrina come inarrivabile status symbol e un bene che nel suo inestimabile valore culturale appartiene a tutti i cittadini del mondo.

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