«Il profeta Giobbe» di Fra Bartolomeo (Firenze, Galleria dell’Accademia) - .
«Facendosi uomo e indossando la nostra sofferenza ben oltre il limite stesso patito da Giobbe, il Dio assente si è fatto Dio presente, ha rimediato all’assurdo della sua inaccessibilità, si è giustificato, si è insomma riscattato. In Cristo si redime Dio: ovvero, il Signore ha potuto pronunziare il suo perdono solo dopo che sulla croce si è fatto perdonare». Così Mario Pomilio, nel suo romanzo Il Natale del 1833, immagina le riflessioni sulla fede che Alessandro Manzoni avrebbe maturato in seguito alla morte di sua moglie Enrichetta Blondel, avvenuta il 25 dicembre del 1833. Il libro di Giobbe è un libro che ha molto ispirato scrittori, filosofi e artisti, forse perché è il libro dove la poesia raggiunge vette molto alte, e forse perché è un libro aperto, ambivalente, quindi generativo. Per me il passaggio attraverso Giobbe ha rappresentato un salto etico nel modo di intendere il mio mestiere di studioso e di uomo. E ogni volta che torno su Giobbe - capita spesso, perché Giobbe è un amico che una volta fatto entrare dentro casa non esce più - ne colgo dimensioni nuove, rettifico idee. Giobbe si rilegge, e le seconde e terze battute sono quelle più buone.
Anche la lettura del breve e appassionante saggio di Massimo Recalcati ( Il grido di Giobbe; Einaudi, pagine 96, euro 15,00) ha offerto nuove domande e nuovi sguardi attorno al grande racconto di Giobbe. Un libro che merita di essere letto e discusso da tutti gli “amici” di Giobbe: «Di fronte al destino che si accanisce contro la sua vita, egli non sceglie però la via del sacrificio rassegnato di se stesso, quanto quella del grido. Egli desidera incontrare il Dio che ha rotto il patto per chiedere le ragioni di questa disdetta drammatica». Per Recalcati, però, «quando finalmente, al termine del libro, avviene l’incontro con Dio in persona, […] Giobbe deve così rettificare la sua posizione convertendosi a una nuova versione della fede». Questo è il muro maestro dell’interpretazione che Recalcati ci dà del libro di Giobbe.
La nuova visione della fede alla quale Giobbe si convertirebbe sarebbe una fede dove è cambiata «la sua idea della Legge. Egli stesso è stato, in fondo, il primo prigioniero dell’illusione della teologia retributiva. L’estrema rettitudine della sua esistenza era stata ripagata da altrettanta soddisfazione e fortuna. L’incontro con Dio, rivelandogli l’illimitatezza della sua potenza che non può essere ingabbiata in nessun calcolo […] costringe Giobbe a sovvertire la vecchia rappresentazione della Legge». Così allora «Giobbe può ritornare al mondo avendo visto insieme a Dio il limite del suo stesso sguardo». Ma siamo sicuri che Giobbe si convertirà con l’arrivo di Dio dentro il suo dramma? Recalcati coglie una linea ermeneutica centrale del libro di Giobbe, forse quella decisiva: la critica alla teologia economico- retributiva dominante dentro e fuori la Bibbia, oggi tornata sotto forma di meritocrazia e di povertà come colpa. Immaginare un Dio che retribuisce i giusti con beni e felicità e punisce i colpevoli con il dolore e la sventura è sempre stata una fondazione solida delle civiltà, perché semplice.
La troviamo anche in un’anima della Bibbia, che giungerà fin dentro i vangeli. Nella sua essenzialità, i dialoghi tra Giobbe e i suoi amici, che sono la parte più bella del libro (purtroppo quasi interamente saltata da Recalcati), sono una contestazione radicale da parte di Giobbe dell’idea che lui è diventato povero e malato perché colpevole, che il peccato fosse la spiegazione della sua sventura. Giobbe non accetta per tutto lo sviluppo del suo libro questa tesi, e rivendica la sua innocenza. Nel reclamare il suo stato di innocente e di sventurato, critica decisamente la logica dell’homo oeconomicus alla base della religione e dell’idea di dio-commercialista. Il primo massimizzatore di profitti non è stato l’economista ma l’uomo religioso: «Perché l’innocente può venire distrutto e il malvagio premiato?».
La prima operazione di Recalcati prende le mosse dal significato del nome Giobbe: “dov’è il Padre?”. Per il filosofo-psicanalista lacaniano, che ha fatto dell’assenza del padre la prima categoria della propria ricerca, una tale etimologia è una tentazione irresistibile – chissà se la prima idea di scrivere un commento a Giobbe non gli sia venuta quando scoprì questa etimologia del nome? Ma nella Bibbia l’uso dell’immagine del padre per Dio è molto rara, quasi inesistente per le persone ordinarie (Salmo 89). In genere è riferita al popolo o al suo rappresentante, il re. Nel libro di Giobbe non si trova mai la parola ebraica padre. In realtà una volta la troviamo, ma non aiuta molto: «Al sepolcro io grido: “Padre mio sei tu!”» (17,14). La stessa etimologia del nome fatta propria da Recalcati non è poi la più probabile (molti esegeti propendono per “l’osteggiato” (Artur Wiser, Giobbe), altri sostengono che l’etimologia è sconosciuta, e probabilmente non era un nome ebraico, forse arabo.
Le etimologie delle parole sono quasi sempre cattive consigliere nell’aurora di una ricerca. Molto più convincente è invece la lettura che Recalcati fa della teologia retributiva, una chiave ermeneutica potente. Anche se l’autore del libro di Giobbe e il personaggio Giobbe restano dentro quella teologia classica più di quanto Recalcati creda. Infatti, se l’autore del libro di Giobbe avesse veramente superato la logica retributiva della fede e se il lettore avesse imparato questa lezione, l’intera logica dei sacrifici e della salvezza tramite le opere buone sarebbero crollate. Ma non è così: né Giobbe né il Libro di Giobbe contestano radicalmente la teologia economica, e l’intervento finale di Dio sospende il giudizio sulla religione retributiva, ma non la confuta. La relativizza e la complica, ma non la scardina. Altrimenti Dio avrebbe dovuto usare altre parole nella sua risposta a Giobbe.
Ecco perché mentre alcune domande di Giobbe agli amici e a Dio stanno scomode dentro la Bibbia, il Libro di Giobbe nel suo insieme ci si trova molto a suo agio, perché, grazie agli ultimi capitoli e alle risposte di Dio a Giobbe, l’eversione delle domande è riassorbita dalla ortodossia delle risposte. E tutti, alla fine, riposano teologicamente in pace. È allora difficile seguire Recalcati nella sua conclusione: «Il Padre lo risarcisce infine con la sua grazia proprio per la sua fede illimitata, capace di resistere alla prova ». Una interpretazione conclusiva e complessiva meno originale e interessante delle altre che si incontrano lungo la lettura: «Se egli perde tutto, non perde però la propria fede, anzi, scopre che è la fede a essere tutto. È quello che accade anche a Gesù nella notte del Getsemani ».
Torna l’accostamento di Giobbe a Gesù, ma, diversamente da Pomilio, Recalcati si ferma al Getsemani, non esplora l’analogia più forte e generativa: quella tra i due gridi, quello di Giobbe e quello dell’Abbandonato, che avrebbe potuto rivelare chiavi di lettura ancora più interessanti (per uno psicoanalista lacaniano), il Dio-figlio che grida l’abbandono di Dio-padre. Recalcati legge invece la storia di Giobbe come storia di una conversione teologica: il primo Giobbe chiede a Dio ragioni per il suo dolore innocente, e si muove dentro la teologia retributiva della Legge; l’ultimo Giobbe, grazie all’intervento diretto di Dio, comprende che non ci sono risposte alle sue domande, e che la sola risposta vera è la fede: «Egli scopre che è proprio la fede l’opera più grande, l’opera che dà senso a tutte le altre opere, l’opera che salva dalla caduta nell’abisso». La conclusione di Recalcati, sebbene suggestiva, non è all’altezza delle sue premesse e delle migliori pagine del suo libro (sulla retribuzione, sul paziente in analisi, sulla colpa). Sorte analoga a quella del libro di Giobbe, dove la conclusione non è all’altezza delle prime e delle seconde pagine (dialoghi) del libro. Non è stato mai semplice prendere sul serio i discorsi finali di Dio nel libro di Giobbe e collegarli con quanto viene prima.
Oggi sappiamo che a scriverli fu probabilmente una mano diversa da quella che scrisse i dialoghi (e forse il Prologo e l’Epilogo). Comunque leggere quei capitoli finali di Dio come “la risposta alle domande di Giobbe” che lo converte dalla sua prima fede economico-retributiva, è esegeticamente troppo complicato e soprattutto non aiuta a capire la grandezza e l’originalità di questo libro. Giobbe fu scritto dopo l’Esilio babilonese, forse è nato durante l’esilio, forse la storia-favola antica dell’uomo di Uz distrutto e riedificato da Dio gli ebrei la scoprirono in Babilonia. È l’esilio dove nasce il grido di Giobbe – come lodare YHWH lungo i fiumi di Babilonia? Come non appendere le cetre ai salici? Come imparare una fede nuova con un Dio sconfitto? Può essere Dio vero anche se perdente? La verità può non coincidere con la vittoria? Il libro di Giobbe è un tentativo di risposta a queste domande tremende e drammatiche. E per questo va letto insieme ai Canti del servo del Secondo Isaia, profeta dell’esilio; insieme a Ezechiele, ad alcune pagine di Geremia: Giobbe è sapienza, certo, ma è anche profezia esiliata e sconfitta d’Israele. E forse una lettura vera del senso generale del libro è: come YHWH che rimane vero da sconfitto, Giobbe resta vero da sconfitto. Ecco perché il Dio che appare alla fine del suo grido non soddisfa né lui, né noi, non è all’altezza dell’opera di Giobbe. Perché, come accade a tante vittime innocenti, da Dio Giobbe viene azzittito, ammutolito. Questo Elohim, avvocato difensore della propria onnipotenza, non si mostra come il Dio che i poveri e gli innocenti come Giobbe cercano. Le sue parole sono più piccole di quelle di Giobbe.
Quando Dio arriva dentro il poema, Giobbe vince la causa contro gli amici, e Dio fa da giudice: «La mia ira si è accesa contro di te [Elifaz] e contro i tuoi due amici, perché non avete detto di me cose rette come il mio servo Giobbe». (42,7-8). Ma Giobbe non voleva vincere sui suoi amici: voleva vincere su Dio, voleva una buona spiegazione del dolore innocente. Giobbe vince in un’aula sbagliata del tribunale, dove Dio non apparve come imputato alla pari, ma come magistrato non richiesto. Ma ci può essere una coerenza tra il primo e l’ultimo capitolo del libro di Giobbe, forse diversa da quella che trova Massimo Recalcati. Ogni tanto nella vita degli scrittori succede che il personaggio del libro diventa più grande dell’autore che gli sta dando vita. Gli sfugge di mano, inizia a vivere una sua vita propria, a crescere fino ad arrivare a pronunciare parole e a scoprire verità che lo stesso autore non pensava né conosceva.
Questa vera e propria estasi negli autori veramente grandi produce i capolavori. Gli scrittori fanno più bello il mondo popolandolo di creature vere più grandi di loro. Giobbe è cresciuto immensamente lungo il suo dramma, superando la teologia e la saggezza del suo autore. Così quello scrittore, dopo aver seguito Giobbe su cime sconosciute, lì si è trovato con un Dio e una teologia incapaci di dialogare veramente con quel Giobbe gigantesco. Ma Elohim non era cresciuto durante il poema. E così quando diede finalmente la parola a Dio, sentì l’enorme scarto tra un Giobbe cresciuto durante tutto il libro e un Dio rimasto fermo al mondo retributivo. Per questa ragione è plausibile pensare – insieme a non pochi esegeti – che la prima stesura del libro terminasse al capitolo 31 («Sono finite le parole di Giobbe»; 31,40b), senza nessuna risposta di Elohim. Giacobbe ( Jacob) ricevette la benedizione dall’angelo di Elohim insieme alla ferita all’anca, nel grande combattimento nel letto dello Yabboq. Giobbe ( Job), nel guado del suo fiume di sofferenza, viene ferito da Elohim ma è lui a benedirlo. Il Dio di Giacobbe ferisce e benedice, quello di Giobbe ferisce e viene benedetto.