Gino Paoli, 83 anni
Ride, Gino Paoli, quando gli si chiede se è valsa la pena vivere delle cosiddette canzonette. Ride e dice: «Che domanda… Me lo chiedo ogni tanto anch’io, sa? E cerco di rispondermi. Però è difficile…». In realtà il capostipite del miglior cantautorato italiano risponde, alla domanda: sornione come sempre, però. Tanto quanto, mentre parla del nuovo cd col pianista Danilo Rea 3, incentrato sulla chanson francese d’autore, a un certo punto anticipa il suo atteso ritorno agli inediti, col progetto a dir poco d’avanguardia Canzoni interrotte «perché le fermerò quando avrò detto quello che c’è da dire, anche se magari la canzone sarà solo una strofa».
Perché non c’è che dire, a 83 anni l’autore de Il cielo in una stanza non smette di stupire confermandosi punta di diamante della nostra canzone più vera, poetica, coraggiosa. Con Rea, Paoli rilegge La mer, Ne me quitte pas o Les feuilles mortes interpretando in francese Montand, Bécaud o Gainsbourg graffiando la voce di slanci e tensioni, stando attento alle linee di canto quanto a caricare di sottolineature teatrali le parole: e non c’è gara, con quanto oggi va di moda sotto la parola “cover” ad opera di belle voci senza testa. E mentre si prepara a presentare 3 dal vivo (accadrà venerdì 15 dicembre, all’Auditorium di Roma), Paoli è però appunto già proiettato verso il futuro, che – dice – «può chiamare come vuole, non so se disco è ancora parola che si usa», e che comunque ha tutta l’aria di essere ulteriore dimostrazione di un’arte sempre mirata a non sprecarle mai, note e parole. Come ai tempi in cui Nanni Ricordi «ha commesso una colpa, creare noialtri»: ovvero Bindi, Tenco, Lauzi, Endrigo, Jannacci, Gaber, Ciampi e – ovviamente – Gino Paoli. La Storia con la maiuscola della nostra canzonetta che diventava, di colpo, arte.
Cominciamo da questo nuovo cd, 3: dodici classici francesi più due sue traduzioni storiche di Brel e Ferré. Quando ha incontrato la canzone d’Oltralpe?
«Subito dopo la guerra, da piccolo. Avevamo subito il fascino dell’esistenzialismo, Simone de Beauvoir, Sartre, e con loro c’erano le canzoni di Vian o Barbara. Un giorno poi un’amica andò a Parigi e se ne tornò col primo lp di Brassens… Da lì nacque la voglia di esprimersi, non puntare solo sull’evasione: la canzone italiana dopo Napoli era diventata solo Papaveri e papere, oggetto per non pensare. Noi, dilettanti pure nel senso che ci divertivamo, capimmo così che si potevano dire cose serie con le canzoni».
“Voi” ovvero i famosi autori della scuola genovese…
«Mafia genovese, dice Antonio Ricci: rognosi in casa, fuori si aiutano… Facevamo sedute per studiare come portare al successo Tenco; dopo che Reverberi l’aveva conosciuto a militare, ci siamo tirati in casa Ciampi uno alla volta; ci passavamo i dischi. Ospitai anche Gaber, quando suonava con Marcello Minerbi: era un bravissimo chitarrista. Ma fra noi il migliore era Bindi, sapeva scrivere sul serio ed era uomo buono, generoso. Una stampa schifosa l’ha massacrato, l’ha ridicolizzato. Il ridicolo uccide, sa?»
Anche Jannacci era nel giro di Ricordi…
«Quando Nanni mi disse di andarlo a sentire, vidi un signore perbene con gli occhiali, che al pianoforte diventava un matto: straordinario. E persona magnifica. Una sera passeggiavo con lui e Gaber, ci disse che eravamo fortunati: non eravamo finiti a trent’anni, la gente ci ricordava… Perché in effetti conta anche la fortuna, oltre che il talento».
I francesi che canta li ha conosciuti di persona?
«Tutti tranne Trenet e Brassens, che volevo conoscere a ogni costo. Brel voleva gli traducessi le canzoni per sfondare in Italia, dopo che mie versioni di brani di Alain Barrière erano diventate hit. Però aveva l’umiltà dei grandi e disse: io provo, se sono ridicolo non se ne fa nulla. Be', era belga, aveva la prononuncia dura, da tedesco: gli dissi che era meglio di no… Bécaud era di una simpatia… Aveva il cancro e mi disse non è così male: gli erano ricresciuti i capelli, neri, dopo la chemio. Aznavour affascinante, con Ferré fummo amici. In radio gli feci recitare Le chien, otto minuti. Il regista faceva segni di tagliare, la gente scrisse lettere entusiaste».
Incise Col tempogià nel ’72: oggi la vive di più?
«No, sono sempre stato un bambino vecchio: un giorno vissuto è un gior- in meno. Brano straordinario».
Perché ha voluto cantare in lingua francese?
«Per non tradire, specie brani come Il disertore o La complainte de la butte del regista Jean Renoir».
Passando a lei: qual è la sua canzone più importante?
«Una canzone è far passare con note e parole, roba concreta, un’emozione astratta; dunque la sua validità risiede in quanto si avvicina all’emozione, non nella bellezza. E allora le dico: Sassi».
E il suo disco più rappresentativo?
«Il più riuscito è L’ufficio delle cose perdute, ma ne Il mio mestiere, molto sperimentale, lontano dal mercato, c’era già dentro tutto. Ora sto scrivendo un album che si chiamerà Canzoni interrotte: già da ragazzo con Arnaldo Bagnasco creai il movimento dell’essenzialismo, e da sempre se bastano tre parole non ne metto cinque. È più difficile, togliere: questi saranno flash emozionali che fermerò quando avrò detto quello che volevo dire, senza sbrodolare».
Ma la canzone è cultura, secondo lei?
«Lo è stata. Oggi mi sembra di no. Per me la cultura è informare e ha a che fare con la libertà: anche la discomusic se informa può essere cultura. Oggi ho dei dubbi, che si colleghi la cultura alla conoscenza vera, quella che poi permette di scegliere liberi».
È valsa la pena per Gino Paoli vivere di canzoni?
«Non lo so… Ho fatto una rinuncia, quando ho capito intorno ai 26 anni che la canzone poteva essere un altro modo di esprimermi: sino ad allora pensavo e vivevo da pittore. Però ogni strada contiene anche le altre strade, scegliendo si fa una rinuncia ma il mio essere pittore in fondo la musica l’ha continuato».
E adesso? Dopo il 15, anche un tour per il disco 3?
«Non so. Sono un pacco espresso (ride), decidono tutto il mio manager e mia moglie, io non ho mai neanche una lira in tasca, pensi. Poi ormai vado solo dove mi vogliono: no, non ci sarà un tour vero, andrò dove mi chiameranno perché gli farà piacere avermi».ù
© RIPRODUZIONE RISERVATA Intervista Il padre dei cantautori italiani in concerto al Parco della Musica con il nuovo disco “3” in cui rilegge assieme al pianista Danilo Rea i suoi miti d’Oltralpe da Bécaud a Trenet «Dopo la guerra subimmo il fascino dell’esistenzialismo e con i dischi di Brassens quello degli chansonniers Da lì cominciò tutto, anche grazie a Nanni Ricordi La canzone è stata cultura perché aveva a che fare con la libertà, ora ho dei dubbi Farò un nuovo disco, “Canzoni interrotte”: a 83 anni posso permettermelo» CANTAUTORE. Gino Paoli, 83 anni: sarà in concerto il prossimo 15 dicembre all’Auditorium Parco della Musica di Roma