Una scena del film "L'ultima volta che siamo stati bambini", la prima regia di Claudio Bisio
Al via la 53ª rassegna di film per ragazzi con il debutto alla regia dell’attore con la storia di tre bambini in cerca del loro amico ebreo rastrellato a Roma nel ‘43: «La Shoah è sullo sfondo, al centro c’è una dura crescita» Giffoni Valle Piana ( Salerno) Dice di essere entrato nella terza fase della sua vita. Di aver rallentato il ritmo e di aver fatto addirittura domanda per la pensione. Fa ancora un po’ fatica a camminare dopo un’operazione all’anca, eppure Claudio Bisio, 66 anni e quasi cinquanta film alle spalle, ha deciso di entrare in una nuova fase creativa della sua carriera debuttando dietro la macchina da presa con L’ultima volta che siamo stati bambini, presentato domenica 23 luglio alla 53ª edizione del Giffoni Film Festival. Un film comico? Ma niente affatto. Quattro anni fa ha letto con sua moglie, la produttrice Sandra Bonzi, il romanzo di Fabio Bartolomei e se ne è innamorato. La storia è quella di tre bambini, Italo, Cosimo e Vanda, che sognano di scoprire il mondo con la spensieratezza dell’infanzia, ma restano intrappolati nelle drammatiche pieghe della Seconda Guerra Mondiale. Quando un loro amichetto ebreo, Riccardo, scompare all’indomani del rastrellamento del ghetto di Roma il 16 ottobre 1943, i piccoli decidono di partire per andare a cercarlo e chiedere la sua liberazione. Sulle loro tracce si mettono in viaggio anche la suora dell’orfanotrofio dove è cresciuta Vanda e un soldato, il fratello maggiore di Italo, piccolo balilla figlio di un gerarca fascista interpretato dallo stesso Bisio. La tragedia della guerra viene dunque osservata attraverso lo sguardo innocente dei giovanissimi protagonisti, ed è stata proprio questa la sfida che ha convinto Bisio al grande salto. L’ultima volta che siamo stati bambini arriverà nelle sale con Medusa il prossimo 12 ottobre, 80 anni dopo la tragica deportazione avvenuta a Roma. «Si tratta di un romanzo di formazione, com’è facile intuire dal titolo, che si svolge nell’arco di pochi giorni. Del racconto di un viaggio alla fine del quale i bambini, costretti dall’esperienza che vivranno a diventare improvvisamente adulti, non saranno mai più gli stessi», commenta il neo regista, che ammette di non aver mai pensato prima di dedicarsi alla regia. «Non l’ho mai affrontata neppure a teatro, nei miei monologhi, perché per un attore è un grande regalo avere qualcuno che ti dirige, ti corregge, commenta quello che fai. Ho 66 anni e pensavo che nella terza parte della mia vita avrei fatto magari il produttore, ma ha vinto la storia di questi tre bambini che nell’estate del 1943 giocano alla guerra prima di incontrarla realmente quando un loro coetaneo ebreo scompare. Dal disegno di un binario che arriva dritto ad Auschwitz scoprono l’esistenza dei campi di lavoro e partono alla ricerca dell’amichetto, decisi a salvarlo perché sono legati dal “patto dello sputo”, perché la saliva fa meno impressione del sangue. Non aspettatevi però un lieto fine: come nel romanzo, così anche nel film viene ricordato che di quei 1259 ebrei deportati da Roma c’erano 207 bambini e nessun di loro è tornato a casa. È stata un’avventura alla quale mi sono avvicinato con umiltà e rispetto e dalla quale esco arricchito umanamente e professionalmente». Bisio si cimenta dunque con un tema drammatico come quello della persecuzione degli ebrei (lo ha fatto anche Roberto Benigni con La vita è bella), ma sottolinea che nel film, girato tra Lazio e Toscana, si riderà, e non poco, grazie anche alla comicità che nasce dalle “scorrettezze politiche” dei bambini, dalla loro ingenuità e dai loro buffi comportamenti. «Non si tratta di un film sulla Shoah, ma di un’avventura “on the road” che guarda a modelli come Stand by Me – Ricordo di un’estate e I Goonies. All’inizio ci sono riferimenti temporali precisi, poi il viaggio diventa volutamente atemporale, non si vedono più camionette, fucili, soldati, anche se il finale ci riporterà inevitabilmente alla realtà della guerra». Realizzare un dramma in costume non è stata un’impresa da poco così come lavorare con dei bambini, che insieme agli animali, come ricorda una vecchia regola di Hollywood, costituiscono la sfida più impegnativa per un regista. «Io ho pensato bene di affrontare tutti e tre questi ostacoli nel mio film di esordio. Ho fatto molti provini a bambini non professionisti, ma quelli che ho scelto avevano delle esperienze alle spalle, come Carlotta De Leonardis, ad esempio, che ha già interpretato L’arminuta. Poi ci sono Federico Cesari nei panni di Vittorio, fratello maggiore del piccolo Italo, e Marianna Fontana che interpreta la suora Agnese. E c’è anche una gallina che i tre bambini vorrebbero fa morire di crepacuore per poterla cucinare e mangiare, ma che invece diventerà la loro mascotte e compagna di viaggio».