Carlo Maria Martini volle, fra le domande drammatiche e ineludibili che intessono la vita di ciascuno, affrontarne una specifica: «Tu, che dici di Gerusalemme? In che rapporto ti senti con Gerusalemme?». Nella catena della tradizione, quale
heilige Kette, sacra catena, come affermò Hans Georg Gadamer, saldata da tutti gli anelli formati nei secoli da chi amava Israele, si inserisce anche Carlo Maria Martini, dapprima come gesuita, biblista e rettore dell’Istituto biblico, poi come cardinale della diocesi di Milano e suo pastore, perché, com’è stato scritto, «Israele, per il cardinal Martini, non è un tema fra altri». Per chiunque sia alla ricerca di nuovi modelli per comprendere il mistero d’Israele e la Chiesa e viverlo, penetrare nel dono che è stato Carlo Maria Martini – come personalità appartiene agli eventi fondatori – è una restituzione e si inserisce nella memoria dei padri nella fede: «Il cammino da fare è ancora lungo. Occorrerà un sempre maggiore approfondimento da parte della teologia cattolica (ma anche del pensiero ebraico), tenendo ben presente che Israele è un mistero, il mistero di Israele – come lo chiamavano Maritain e tanti altri studiosi di queste realtà – Israele non è qualcosa che si possa ridurre a equazione matematica, non è una domanda che ammetta risposte semplici. È qualcosa che continuamente rimette in moto la coscienza sui grandi valori dell’essere e del non essere, di Dio e del non senso. È un mistero che continuamente ci rimette in questione. Per questo è così affascinante, così difficile. È un mistero nodale della storia umana e anche la Chiesa lo riconosce come sua misteriosa origine».Mistero non chiuso in se stesso, abbozzolato e quindi solo da riscontrare e accettare ineluttabilmente, sì realtà sfuggente, che non si lascia circoscrivere e prendere in mano, perché altrimenti sarebbe chiuso e concluso. Realtà pur sempre plasmabile e plasmatrice, che coinvolge e qualifica non solo un segmento della storia del mondo e dell’umanità ma si sporge molto più in là: «La realtà misteriosa di Israele si proietta su un futuro lontano. È un mistero che si muove verso la pienezza come il cristianesimo e l’umanità tutta». Egli era consapevole di una realtà, del posto e del ruolo che «a Israele è affidato nel piano divino di salvezza: si tratta di un compito teologico di primaria importanza». Ne consegue una diversità di accenti, paralleli alle diversità delle fasi della sua vita, da cogliere nella rete dei sottili rapporti fra preghiera, studio, vita personale e vita da pastore, che abita ogni momento del quotidiano.Come e con l’amico gesuita Francesco Rossi de Gasperis, con cui condivise desideri e speranze ecumeniche, Carlo Maria Martini potrebbe esclamare, ripetendo le parole di Ester (10,3) «la mia nazione è Israele», e chiedere a tutti di mettersi in ascolto: «Riescono essi a comprendere in qualche modo (certamente molto arduo oggi per loro) la conseguente confessione di fede che canta nel mio cuore di cristiano della gentilità che vive a Gerusalemme, ogni volta che leggo e rinasco dalla Parola: “Israele è lo spazio della mia fede”»?Proprio Israele fu lo spazio della fede confessante di Carlo Maria Martini, spazio di fede pasquale in cui si presenta sempre uno scarto, una distanza. Dobbiamo con la memoria – quella nostra personale e quella che dagli apostoli in poi percorre i secoli della vita della Chiesa – riprendere questa diversità per giungere a omologarci alla loro fede. Solo una volta compiuto questo passo, si raggiunge l’universale, in cui nella coscienza personale confluiscono, in un solo sguardo attento, l’amore e la verità teologica che promana dall’evento originario, fontale, e ne diveniamo totalmente partecipi e totalmente innovatori. Notevole fu il suo contributo per rompere quella che venne definita da Arthur Droge la «prigionia bultmaniana», cioè «l’abbandono dell’interpretazione anti-giudaica del Nuovo Testamento lanciata da Kittel, Noth, Bultmann», in cui Martini e James Charlesworth vengono considerati come «due eccellenti esempi di questa nuova corrente».Se egli ha dato delle risposte, queste sono rimaste aperte, perché sempre inscritte nel mistero Israele, che nella storia si incarna in testimoni credenti, frammentariamente e progressivamente ma pur sempre realisticamente. Testimoni che si susseguono sullo scenario della storia, sempre aprendo nuove prospettive, da cui altre nuove prospettive sono rese possibili, da non confondere con il «fallibilismo» o la «falsificabilità», ma da individuare nel cammino di penetrazione nel mistero che sempre si sta svelando. Lo si potrà verificare considerando il linguaggio allora innovativo del cardinale di Milano, ad esempio usando la dizione «fratelli maggiori», attualmente quasi abbandonata per assumere quella di «fratelli gemelli» e di «
Brotherhood» oppure di «alleanza unica», mentre oggi si dimostra teologicamente la «duplice alleanza» e l’ipotesi di «alleanze multiple».Alla luce di questi varchi si possono riconoscere i nuclei di condensazione che abitano il pensiero e la vita di Carlo Maria Martini. Rimane infatti indiscussa l’affermazione di un testimone del dialogo ebraico-cristiano della levatura di Bruno Hussar che ne sottolineava l’aspetto principale: «Il fascino che Gerusalemme esercita su di lui». Possiamo, con sicurezza, fissare il momento in cui Carlo Maria Martini prese consapevolezza dell’esistenza di questo suo anelito: «Il desiderio di vivere a Gerusalemme l’ho provato per la prima volta a dieci anni, quando un padre ci raccontò di sant’Ignazio. Subito dopo la sua conversione, Ignazio volle recarsi a Gerusalemme, l’aveva sempre desiderato. Perché non volle andare in pellegrinaggio a Santiago de Compostela o in altri grandi luoghi di pellegrinaggio della sua epoca? Voleva vedere le orme di Gesù. Ho condiviso questa nostalgia. In viaggio verso Gerusalemme ho pregato recitando i canti del pellegrinaggio, i Salmi dal 120 al 134. Ormai è diventata un’abitudine quando salgo a Gerusalemme».Annota Gian Franco Bottoni: «Percepire con forza, a un certo momento della propria esistenza, l’istanza di dirigersi a Gerusalemme, scegliendola come città per la propria vita e desiderandola come terra per la propria sepoltura, non è un’esperienza comune. Non lo è certo per chi non è ebreo. In un cristiano è un fatto decisamente inconsueto. Quando però questa esperienza ha l’intensità che trapela dalle parole con le quali Carlo Maria Martini ne discorre, allora essa ha il potere di suscitare profonde risonanze, in persone le più diverse, al di là dei confini confessionali tra laici, religiosi, cristiani e non. Carlo Maria Martini compì questo pellegrinaggio nella Bibbia e con la Bibbia ma orientato da e verso Gerusalemme, luogo originario, inteso come luogo epifanico di significanza e di fecondità teologica e ne divenne interprete e promotore:
Gerusalemme eccesso».