Era il 2 ottobre 1973 e debuttava il quarto spettacolo teatrale di Giorgio Gaber. Il “Teatro canzone”, ovvero l’arte creata fra prosa e musica dal Signor G con Sandro Luporini riflettendo sulla realtà, non c’era ancora: la definizione i due se la sarebbero data vent’anni dopo. Ma non c’era neppure un gran teatro, per Gaber: il quale, scappato dalle censure discografiche e televisive con l’aiuto di Paolo Grassi e del Piccolo di Milano, era reduce da tre stagioni di semi-insuccessi. Perché né
Il Signor G né le
Storie vecchie e nuove del Signor G né il
Dialogo tra un impegnato e un non so avevano fatto centro. I primi due lavori erano più recital (con troppo Brel) che spettacoli compiuti, e al terzo mancava l’intuizione del mettersi in gioco gaberiano in tutto e per tutto, senza corollari ideologici e il loro trito ma consequenziale linguaggio da lotta di classe. Il quarto spettacolo, invece, fu un’altra faccenda: che registrò 185 repliche in 104 teatri, e lanciato da un eccellente ritorno ai dischi normali tramite il 45 giri
Lo shampoo/ La libertà, portò nelle hit parade anche l’Lp dello spettacolo. L’ultimo concepito da Gaber come disco in studio delle sole canzoni presenti nel lavoro, senza la prosa. Il titolo di questo disco e dello spettacolo lo conoscono tutti: è
Far finta di essere sani. Ma quanto colpisce è come quel lavoro, “concept album” di uno spettacolo a tema, sia di fragorosa e inquietante attualità.
Far finta di essere sani infatti, per citare lo stesso Signor G, prende le mosse da «una fase un po’ schizoide nella quale il corpo dell’uomo (il suo agire concreto) è assai distante da certi slanci ideali ». E per quanto tale tema fosse molto in voga nella riflessione politicoideologico- umanistica dell’epoca (più nelle prime due, giacché fu qui che Gaber ricevette i primi fischi di un pubblico “militante” che non accettava l’ipotesi di cercare un senso al sé prima di scendere in piazza), non è tanto il lato filosofico del “concept” che colpisce, quanto come riflettendo su esso Gaber e Luporini fossero giunti a descrivere con precisione un fatto concreto. Ovvero, nel ’73, la società… del Terzo millennio. Ovviamente c’è, in
Far finta di essere sani, un lato politico: ma è già basato sugli ideali puri, e
La libertà, lanciata malamente nel 1972, chiude
Far finta di essere sani segnalando l’urgenza di partecipare alla società risolvendo in primis se stessi, unico modo per capire la società medesima. Che società, però, Gaber e Luporini scrivono e cantano nel 1973. Che l’uomo moderno fosse coperto da maschere non era una novità: però
Cerco un gesto, un gesto naturale fu la prima canzone a dirlo a molti. E poi ecco il canto premonitore di una vita spesa fra consumismo o cortei, ma sempre povera di sentimenti e interiorità (
È sabato, Lo shampoo); ecco l’intuizione che troppi, perdendo di vista gli ideali, avrebbero dovuto ricorrere allo psicanalista per evitare incubi e fobie (
L’elastico); ecco un’attenzione al puro apparire che già i due artisti vedono anticipatoria del vuoto in primo piano con tutti i drammi esistenziali che ciò comporta (
Quello che perde i pezzi). E ne
La nave, magistrale, la vita dell’uomo è già un vano atteggiarsi tal quale quello dei futuri “anni di plastica” e dei nostri anni Duemila; un atteggiarsi tragicamente dimentico sia del vivere reale, che di tutti coloro i quali per varie ragioni (ben più serie di un’ideologia o dei patetismi radical-chic) a vivere non riescono. Al centro di
Far finta di essere sani, infatti, non stanno solo la ricerca dell’interezza dell’individuo o del suo senso nell’agire sociale. Ci sono invece, con decenni di anticipo, fobie, panico, turbe psichiche, depressione, devianze. Tanto che Gaber fu invitato a rappresentare disco e spettacolo anche all’ospedale neuropsichiatrico di Voghera. Era il giugno ’74, e il medico che l’aveva invitato disse: «Non è che il disturbo psichico non sia una devianza, non è questo che vogliamo dire; è che questa devianza spesso appartiene anche ai cosiddetti sani. Dov’è il confine, dunque?». Gaber e Luporini, vera mente di
Far finta di essere sani come delle altre opere del duo, individuavano il confine dapprima satireggiando (ma non troppo) fra moto cromate, creme di bellezza, velleità intellettuali. Poi però passavano già a parlare di tifo da stadio (
Dall’altra parte del cancello), incapacità di comunicare (
Algebra), malattie mentali «favorite dai nostri modelli di vita» (
Oh mama!). Senza dimenticare una libertà senza freno né senno, che «penalizza i più sensibili e dunque emarginabili dai vari sistemi produttivi» (Gaber dixit); e soprattutto senza dimenticare
Il guarito, canzone presto tolta di scena (
Ridono, ma cosa c’è da ridere?, si arrabbiava Gaber) e però portata anche in tv – la tv svizzera, ovvio.
Il guarito è uno che risolve le angosce uccidendo tutta la famiglia. Uno normale, educato, seguito dai medici e amato dai parenti: che stermina. Guarda un po’, sembra la cronaca di questi anni: perché nel giugno ’74 la capienza della sala dell’ospedale di Voghera dove si chiuse la tournée del primo “vero” Gaber e del suo “concept album” e show
Far finta di essere sani era di 900 persone, ma furono coinvolti e interessati in 1.500. Quarantadue anni dopo, si dovesse ripetere l’evento invitando chiunque possa trovarci un po’ del nostro vivere odierno, non basterebbero mille stadi. Perché Gaber e Luporini avevano cantato la deriva dell’oggi in larghissimo anticipo, mentre i più discettavano di Cambogia e tante altre faccende che come molte di oggi, in fondo, erano già alibi per non dover guardare in faccia come siamo ridotti.