venerdì 6 settembre 2019
Parla il terzo e unico figlio ancora vivente del grande giornalista sportivo e scrittore, nato l'8 settembre 1919: «In casa era vietato parlare di calcio, lui la considerava un'offesa personale»
Gianni Brera, l'8 settembre sono 100 anni dalla nascita

Gianni Brera, l'8 settembre sono 100 anni dalla nascita

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Il “musico nocchiero” Franco. Fino a poco tempo fa, Franco Brera, classe 1951, il terzo dei tre figli - l’unico ancora vivente - di Gianni Brera, lo trovavi al timone del barcone delle “crociere” turistiche sul Naviglio. «Mestiere stagionale che faccio ancora, ma sull’Adda e al Lago di Varese», precisa il musicologo e musicista «suono un po’ tutti gli strumenti ... e tutti un po’ male, dal piano alla chitarra fino al mio prediletto, il flauto dolce». Franco è anche autore e arrangiatore, con decine di dischi incisi: «Genere? Musica relax, ovvero quelle melodie che sono poi diventate la collana “Antistress”, edita dai Fratelli Fabbri». E poi ci sono le serate di teatro-canzone meneghine: «Con l’attore Alessandro Pazzi, siamo alla ventesima replica dello spettacolo Le Canzoni della nebbia. Da Leonardo da Vinci a Jannacci ».

Quello della musica era un altro campo in cui scendeva volentieri suo padre Gianni Brera?

Aveva conoscenza e gusti dolci, raffinati anche musicalmente parlando. Gli piaceva Chopin ma la sua preferita era l’Aria della quarta corda di Bach. E poi, gli facevo ascoltare spesso le mie cose e il suo giudizio era sempre pertinentissimo, oltre che tenuto nella dovuta considerazione.

E il giudizio della compagna di una vita, di sua moglie e vostra madre Rina?

Beh, per noi in casa lei era la “Professora”. Donna coltissima, laureata in lettere, gioia e delizia degli studenti dei licei milanesi che ha formato e che appassionava con le sue lezioni. Mio padre gli sottoponeva spesso articoli e saggi in anteprima, era un confronto culturale costante, fondamentale. E poi non dimentichiamoci che la prima in casa Brera a pubblicare è stata la Rina, dei racconti sulla “Domenica del Corriere”.

Insomma intellettuale, moglie e mamma esemplare di tre figli.

Veramente eravamo in quattro. Il primo figlio morì che aveva sei mesi, nel ’44, quando mio padre era in guerra. Gli arrivò la notizia in montagna e per lui credo sia stato il più grande dolore taciuto. Con i miei fratelli ne parlavamo solo con la mamma di quel bambino che per me è stato un fantasma, presentissimo, porto anche il suo nome... si chiamava Franco.

Che padre è stato Gianni Brera?

Un genitore molto assente a causa del suo lavoro ma anche una presenza calda, fisica quando c’era. In casa era vietato parlare di calcio, lo considerava un’offesa personale.

Quindi no al dibattito domestico sull’ “Abatino” Rivera o su “Rombo di Tuono” Gigi Riva?

No, nessun accenno neppure a “Deltaplano” Zenga. L’Abatino per noi era solo il Parini. Ognuno dei figli ha ripiegato su sport, allora originali, come il rugby o il karate. Tutti comunque abbiamo avuta la nostra bella parentesi giornalistica, con assunzione accompagnata da regolare lettera di raccomandazione paterna. Il nome di Brera, nei giornali, all’epoca pesava quanto quello dei politici al governo.

Carlo Brera, il figlio maggiore, ha lavorato anche alla redazione di Avvenire nei primi anni ’70.

Carlo era un eclettico. Cominciò con la satira politica sul “Giornale dei lavoratori”: si firmava Carlo Sartana, aveva tantissimi lettori e riceveva altrettante querele, sinonimo di successo. Più che giornalista però Carlo è stato uno straordinario narratore e traduttore di autori stranieri del calibro di Stephen King. E poi pittore e scultore subito molto quotato da Bolaffi e perfino compositore. Ho ritrovato un brano, I dolori del giovane Werther composto a quattro mani con nostro padre: Gianni scrisse il testo e Carlo lo musicò.

Possiamo dire che Carlo era il più affine a papà Brera?

Di sicuro tra loro c’era un bell’Edipo latente, si scontravano quotidianamente ma poi c’erano le tavolate della pace. Io, Carlo (scomparso nel 1994) e Paolo (morto all’improvviso nel metrò a Milano lo scorso febbraio) beneficiavamo della deroga per partecipare alle cene dell’esclusivo e breriano “Club del giovedì”, appuntamento settimanale al ristorante A’ Riccione.

Ultimo cenacolo di liberi pensatori a Milano...

C’era un’umanità varia, ben descritta da Carlo nel suo romanzo La fortunata mattina di un venditore di libri senza padre. A ripensarci ora, quei commensali del giovedì erano tutti personaggi straordinariamente interessanti, anche i peggiori. Chi sono stati

i veri amici di Gianni Brera?

Lo scultore Carlo Mo che personalmente consideravo un secondo padre. Ma anche Ottavio Missoni e poi i colleghi del GiornoMario Fossati, Pilade Del Buono, Giulio Signori...

Per molto tempo il “fratello italiano” di Brera è stato lo scrittore Giovanni Arpino, poi la rottura, forse sanata in punta di morte?

Non so se si siano più riconciliati, non credo. Ma Brera continuò a parlare bene di Arpino anche quando ruppero l’amicizia. Lo chiamava “il mio Nobel personale”, amava i romanzi di Arpino. Io trovo che Domingo il favoloso sia forse il migliore.

Molti critici sostengono che Brera fosse molto meglio come giornalista che come narratore...

Dissento, penso che la sua cifra sia quella dello scrittore di razza. Coppi e il Diavolo è un grande romanzo, così come Il mio Vescovo e le animalesse è un’opera stilisticamente importante e di grande spiritualità. Mio padre prima di addormentarsi pregava, ripetendo il suo mon Dieu.

Quando pensa a lui qual è l’immagine più cara che le torna alla mente?

Un derby a San Siro in cui vinse il Milan di Sacchi e portai allo stadio anche i miei due gemelli. Il Gioàn se ne stava lì, al centro della tribuna stampa, elegante dentro il suo bel cappotto, e lo vedevi che in quell’atmosfera così popolare, bellissima, lui ci sguazzava come il topo nel formaggio. Era felice, ed era uno spettacolo per me che lo osservavo, da lontano...

Cosa potrebbe insegnare Gianni Brera ai giovani d’oggi?

Se fosse qui gli direbbe: “Ragazzi, la cosa più importante è il lavoro, lavorate e fatelo con passione” È anche l’insegnamento più significativo che ha lasciato in eredità a noi figli: ci ha tenuti lontani dal suo mondo per non servirci la bistecca sul piatto ma per insegnarci come si dovrebbe cucinarla, tutti i giorni.


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