«Vedi, ho là cento compagni. Dacci Isotta e che appartenga a tutti noi! Il male accende i nostri desideri. Dalla ai tuoi lebbrosi...». Non è detto che il giovane Francesco, che sognava di diventar cavaliere, abbia mai letto parola per parola e rigo per rigo quella terribile pagina del troviere normanno Béroul, che nella seconda metà del XII secolo aveva scritto un
Tristan in versi del quale ci resta solo un lungo frammento, più o meno di 4500 versi. Non è neppure sicuro che l’abbia mai finito, quel poema. Del resto, a parte le due note versioni di Thomas e poi di Goffredo di Strasburgo, la storia di Tristano e d’Isotta era stata più volte raccontata, dal Galles alla Germania, e molti di quei racconti sono andati perduti. Ma si trattava di rifacimenti e di variazioni di una leggenda antica e celebre, alla quale certo nuovi e più forti e drammatici colori dovevano essere stati aggiunti proprio da quando, in seguito all’intensificarsi dei traffici e dei pellegrinaggi (e non solo, come oggi si ama ripetere, «alle crociate»!...), lebbra e lebbrosari erano divenuti sempre più frequenti.Chissà che in quel famoso
cum essem in peccatis, nimis mini videbatur amarum videre leprosos del
Testamentum non vibri ancora in qualche modo la memoria d’un sentimento che a noi moderni sfugge, d’un tempo nel quale il giovane Francesco aveva aborrito la vista di quei miserabili ammalati non solo per un ovvio e comprensibile misto di paura e di repulsione, ma anche per qualcosa di forse più simile all’odio e al disprezzo nei confronti del «re dei lebbrosi» Yvain e dei suoi sventurati compari, coloro che nel racconto di Béroul osano sperare di avventarsi con i loro ripugnanti moncherini coperti di stracci luridi sul corpo candido e profumato della Bionda Signora e possederla a turno, ancora e ancora. Quale giovane aspirante cavaliere non avrebbe sognato di trovarsi là, di sgominare quei ripugnanti infelici, d’affrontare lo stesso sovrano che l’umiliazione per l’adulterio aveva reso spietato rimproverandogli il suo disonore, di liberare la bella? Ma allora il bacio di Francesco al lebbroso acquista un valore ancor più intenso e profondo: vincendo se stesso, la paura, la repulsione, Francesco vince anche l’ombra di un’ostilità inespressa, la scia dei suoi sogni di ragazzo.Questa «via cavalleresca alla santità», in Francesco, costituisce un tema che alcuni anni fa mi aveva molto attratto e sul quale, di quando in quando, mi capita di desiderar di tornare; o di rammaricarmi per non aver il tempo di farlo. È appunto la «via» che sembra dominare l’episodio della
Vita beati Francisci di Tommaso da Celano nel quale Francesco, praeter morem suum, quia curialissimus erat, cuidam pauperi postulanti ab eo eleemosynam exprobrasset, ma subito se n’era pentito rendendosi conto che
magni vituperii fore magnique dedecoris petenti pro nomine tanti Regis subtrahere postulata. Egli aveva negato l’elemosina a un povero che gliel’aveva domandata nel nome di Dio: un atto che contrastava con la sua abituale curialitas, e ch’era anzi degno di
vituperium e di
dedecus. Parte necessaria della
curialitas era la
largitas, la
liberalitas, la generosità che si trova nei poemi epici del tempo, come
largesse, inseparabile compagna di prouesse, cioè di
probitas, del coraggio. Sono i valori cortesi-cavallereschi, che a proposito di questo passo di Tommaso da Celano hanno consentito a Chiara Frugoni di riflettere molto giustamente che «in questa fase della vita Francesco non è mosso dalla compassione per i più deboli ma dal codice morale dei suoi nobili amici, puntigliosamente preso a modello»: un’osservazione che Marco Bartoli riprende e approfondisce ritenendo probabile che Francesco conoscesse - per averli letti o più probabilmente ascoltati recitare - quei precetti che si trovano in poemi come il
Garin le Lorrain, che cioè ad esempio «è col donare che un uomo di valore viene in alto pregio». Anche il dono della veste al povero cavaliere, altro episodio-chiave della
conversio del santo, rientra quanto meno formalmente in questa tipologia dell’elemosina cortese».D’altronde, c’è almeno un altro testo francescano nel quale il truce «re dei lebbrosi» di Béroul sembra tornar a insidiare direttamente Francesco, a metterlo alla prova. È il capitolo XXV dei
Fioretti, quello del lebbroso «sì impaziente e sì incomportabile e protervo» che «isvillaneggiava di parole e di battiture sì sconciamente chiunque lo serviva» e «vituperosamente bestemmiava Cristo benedetto e la sua santissima madre Vergine Maria»: Francesco conquista questo povero tanto perfido con la bontà e la dolcezza ancor prima che con il miracolo, giacché il tocco delle sue mani ne monda le piaghe. Si tratta di una pagina tanto intensa quanto complessa, dal momento che la malvagità del lebbroso è, in effetti, un segno di possessione demoniaca: per cui la scena della cura e della lavanda del corpo del perfido infermo è, al tempo stesso, un esorcismo. E il vero miracolo divino, ancor più di quello manifestatosi attraverso le mani del santo, sta nel pentimento e nella salvezza di un’anima che sembrava irrimediabilmente perduta. Al di là dell’aspetto propriamente materiale del servizio, cioè della cura fisica e della lavanda del corpo, sono la carità e la dolcezza profuse durante il suo corso a ottenere un miracolo duplice, la guarigione dalle piaghe e quella, più difficile e preziosa, dal peccato.Che l’esperienza della povertà sia centrale nella vocazione di Francesco, è cosa tanto certa quanto nota. Quello delle sue nozze con Madonna Povertà è un tema di straordinaria pregnanza nella mistica e nella tradizione francescana, legittimato dallo splendido trattatello De sacro commercio beati Francisci cum domina Paupertate e dall’XI canto del Paradiso dantesco e celebrato da opere pittoriche di grande significato.