lunedì 24 marzo 2025
In "La ragazza di Savannah" è un ritratto realizzato dalla scrittrice Romana Petri che restituisce l'intelligenza e la fede della narratrice americana nata il 25 marzo 1925
La scrittrice Flannery O'Connor

La scrittrice Flannery O'Connor - Alamy Stock Photo

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Ci sono almeno tre modi – parlo di me suo fedelissimo lettore – per confrontarsi con La ragazza di Savannah (Mondadori, pagine 276, euro 19,50) di Romana Petri, scrittrice tra le più prolifiche e felici in attività. Il primo riguarda il ritratto della protagonista, una delle più singolari e lucide narratrici americane del secolo scorso, Flannery O’Connor, nata cento anni fa a Savannah il 25 marzo e morta ad appena trentanove anni il 3 agosto 1964, a causa del Lupus, l’atroce malattia degenerativa di cui era morto anche l’adorato genitore. Il secondo ha a che fare, invece, con quella disposizione alla biografia, tra scrupolo storico-filologico e invenzione del vero, già sperimentata in alcuni romanzi precedenti, tra i quali ricordo, dedicati a Jack London, Il mio cane del Klondike (2017) e Figlio del Lupo (2020), nonché Rubare la notte (2023), su Antoine de Saint-Exupéry. Il terzo mette in giuoco invece la propria autobiografia e si traduce in una domanda, non eludibile in una società letteraria che vive ormai del primato dell’autore sul testo, per di più complicata dalla questione di genere, là dove è una donna del presente a scrivere di un’altra del passato. Questa: quanto di Petri è entrato in Flannery O’Connor? E quanto di Flannery O’Connor, della sua affascinante e prepotente personalità potrebbe entrare in un eventuale capitolo di storia delle donne a lei intitolato? È un quesito cui voglio rispondere subito con un episodio: Flannery che «prende a pugni» il suo angelo custode perché non ne sopporta l’invadenza e che mi fa subito ricordare le competenze di Petri, la quale pratica la boxe per diletto.

Mary Flan – così la chiama Petri – condivide coi protagonisti dei venturosi romanzi biografici citati una filosofia della vita, che si traduce in un modo speciale di viverla. Ma in lei, così sarcastica e intellettualmente scintillante, quella filosofia si manifesta con più consapevolezza e intensità. Prendete il suo rapporto con la fede di cattolica che realizza la sua missione di credente con rigore e un grande senso di libertà. Ecco: «“Dio sembra buono” disse una sera al padre. “Invece è sopra ogni cosa immensamente giusto”». Edward O’Connor, padre tenerissimo, è orgoglioso di quella «figlia tanto arguta», che ha i suoi stessi valori e sentimenti: «Quale altra ragazzina avrebbe parlato in questi termini? Per lei, invece, quell’immensamente giusto era la ragione vera della fede». Senza dire delle lettere che Mary Flan indirizza all’Onnipotente, affinché venga esaudito quello che è il suo massimo desiderio, la sua più vera vocazione: «Non abbiatevene se la mia preghiera si sta trasformando in una richiesta di aiuto per diventare una brava scrittrice. Aiutatemi a realizzare qualcosa. Vi invoco e Vi prego. Se in ogni mio scritto ci sarete Voi , allora l’anima mia sarà salvata».

Si tratta di una fede potente, che non solo le fa dono – ne è sicura – dell’agognato destino di scrittrice, ma che la rende forte a fronte d’ogni sofferenza: lei occhi blu scuro ma per niente bella, goffa, costantemente afflitta da un certo senso d’inadeguatezza, ma determinata. Sentite qua: «Sono zoppa. Bene, perché dovrei abbattermi? Non si vive senza soffrire. Personalmente non credo che la vita sia una tragedia come molta gente non fa che ripetere. La tragedia lasciamola spiegare ai professori. La vita è solo volontà di Dio». Vogliamo poi parlare – altro aspetto della sua originalissima personalità – della passione per i pavoni? Le creature che alleva, passando «quasi tutto il suo tempo libero a studiarli». È già malata quando scrive una lettera a Sally Fitzgerald, pittrice e autrice di recensioni, la quale, insieme al marito Robert, docente universitario e traduttore di classici, diventerà «la sua seconda famiglia». Cattolica come Mary Flan, Sally ne curerà l’epistolario dopo la morte. Dicevo della lettera: «Ho deciso di comprare i miei primi pavoni. E ti chiedo di dare molta importanza alla parola primi. Perché tutto sarà cominciare, mia madre dirà che è una pazzia, e lo ripeterà ogni volta che ne arriveranno di nuovi. Ma poi si arrenderà». E poi: «Ho deciso che non ne avrò meno di quaranta. E che potrei anche mettermi a dipingerli perché non posso passare tutto il tempo solo a leggere e a scrivere». E più avanti: «Ho desiderato i pavoni tutta la vita. Tu dici che distruggeranno la fattoria»? Infine: «Non ho ancora previsto quanti ne avrò. Ma vorrei che camminando (…) potessi inciampare continuamente in qualcuno di loro».

Parlavo dello specialissimo rapporto che Mary Flan ha col padre: grande tema, questo, di Petri, che ha dedicato al suo, il grande basso-baritono e attore Mario Petri, un libro struggente come Le serenate del Ciclone (2015). Non è però meno importante qui la figura della madre, concreta e pragmatica, che non la capisce, ma che la assisterà sino alla fine: «Regina Cline veniva da una famiglia numerosissima che risiedeva da sempre a Milledgeville. Il padre, Peter, era rimasto vedovo con sette figli e aveva pensato bene di risposarsi con la sorella della moglie, dalla quale ne aveva avuti altri nove». La sua è «una delle famiglie più in vista della città», ma la vita di questa donna benestante non deve essere stata di certo facile.

Il romanzo, si sa, è un genere letterario che ingloba tutto: compresa la critica letteraria. Petri dimostra, soprattutto sui racconti di Flannery O’Connor, di sapere esercitare anche questa difficile arte ormai in estinzione. C’è una raccolta di Mary Flan che s’intitola Un buon uomo è difficile da trovare. Petri riporta la lettera che le scrive un ingegnere scapolo di trentun anni per smentirla: è proprio lui – obietta – la riprova che quel tipo d’uomo invece esiste. E si candida a farsi conoscere. Scrive Petri: «Finì la lettura con la testa tra le mani e ridendo davvero di gusto. “Un non lettore” disse a bassa voce. “Adesso mi scrivono anche loro. Questa a mia madre non la dico. Questa è troppo”».

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