Roberto Colombo - Siciliani
Da diverse settimane “Avvenire” sta sviluppando un dibattito su cattolicesimo e cultura, avviato dagl i interventi di PierAngelo Sequeri e Roberto Righetto e al quale hanno poi partecipato Gabriel, Forte, Petrosino, Ossola, Spadaro, Giaccardi, Lorizio, Massironi, Giovagnoli, Santerini, Cosentino, Zanchi, Possenti, Alici, Ornaghi, Rondoni, Esposito, Sabatini, Cacciari, Nembrini, Gabellini, Vigini e Timossi.
È tesi condivisa dagli storici che scienza empirica, tecnologia e medicina moderna abbiano trovato le ragioni e le condizioni culturali, sociali e politiche per la loro nascita ed il vigoroso sviluppo in Occidente proprio nel terreno ebraico-cristiano in cui sono cresciute le altre scienze e arti. Dal XVII al XX secolo, nel seno della Chiesa e delle istituzioni a essa collegate troviamo nomi della ricerca legati a capitoli decisivi per l’innovazione delle conoscenze matematiche, fisiche, biologiche e mediche: Newton, Spallanzani, Volta, Mendel, Marconi, Pasteur, Gemelli e Lejeune, per citarne alcuni. Non pochi erano anche dei consacrati. Al di là di questa eredità cospicua (le eredità contano, e il loro contributo non può essere liquidato dai successori come questione sentimentale, con una lapide alla memoria), cosa resta oggi della cultura cattolica e della presenza dei cattolici lì dove lavorano ricercatori e medici, si progettano studi sperimentali e clinici, e si autorizzano e finanziano investigazioni scientifiche e nuove strutture sanitarie? Lo sguardo originale della fede sull’uomo, il mondo e il bene fondamentale della vita umana individuale e sociale, il proprium della cultura cattolica, è ancora visibile e incisivo dove si fa ricerca, insegnamento, sviluppo tecnologico, diagnosi, terapia e cura? Non mancano credenti, parecchi anche giovani, tra i ricercatori, i docenti universitari, i tecnologi, i medici e altri professionisti. Frequentatori delle messe, membri di consigli pastorali, associazioni e movimenti ecclesiali, non pochi sono educatori in oratori ed attivi nel volontariato e in istituzioni cattoliche. Sono diaconi o ministri straordinari dell’Eucaristia. Donne e uomini di fede. Mogli, mariti, genitori e figli bravi e apprezzati. Qualcuno sulla via della santità.
Cosa manca, dunque? Quello che latita è l’incidenza di una fede che si fa cultura nei tempi e nei luoghi quotidiani (lontani dalla famiglia e dalle chiese), nel mondo del lavoro scientifico, tecnologico e medico. La presenza culturale cattolica in università, nei centri di ricerca e negli ospedali non si esaurisce nel chiamare un oratore (laico o ecclesiastico) a tenere una “bella conferenza” di etica, di teologia o di spiritualità, o a intervenire in un congresso. Né nell’invitare i colleghi a una cerimonia religiosa o a incontrare un vescovo o un prete. Ciò che più contribuisce a far riabbracciare scienza, medicina e fede è un credente che investe personalmente il suo pensiero e la sua azione – da figlio di Dio e membro del corpo di Cristo che è Chiesa – in un laboratorio di ricerca, nelle riunioni tra colleghi, nelle corsie di un istituto di ricovero e cura, nelle aule delle facoltà, attorno ai tavoli da cui escono le linee guida degli studi, e dove si elabora la politica della scienza e della medicina. Non esiste una “scienza cattolica” e una “medicina cattolica”. Scienza e medicina rifiutano (giustamente) ogni qualificazione confessionale. Esiste un modo di “fare scienza” e di “fare medicina” nel quale la medesima realtà da indagare, gli stessi strumenti, le identiche metodiche sperimentali, diagnostiche o terapeutiche sono cariche di una do-manda di significato per sé, per gli altri e per tutto che ha una densità, una profondità, un orizzonte, una ragionevolezza irriducibilmente positiva che sgorgano dall’intelligenza della fede. La rocciosa e gioiosa certezza che il mondo e la vita (nostra e degli altri) ci sono dati da Chi li ha creati per noi e per tutti, e li ha riscattati dal male attraverso la passione, croce e risurrezione di suo Figlio, genera una originale cultura scientifica che non è di minor valore scientifico e clinico rispetto a quella prodotta dai non credenti. A patto, però, che la fede non distragga dall’inesausta passione e dal rigoroso impegno che la ricerca empirica e la medicina chiedono, ma li potenzi spalancando la domanda su tutta la realtà. All’opposto, una “fede-rifugio” che cerca nell’esperienza religiosa o nella comunità cristiana un’evasione festiva o serale dalle fatiche in laboratorio, nelle riunioni di lavoro o nelle corsie d’ospedale, per trovare un’oasi protetta dall’urto del reale (una distrazione spirituale, emotiva, da “dopolavoro”) non produce cultura. Non impatta sullo stile scientifico e clinico, non genera un modo di fare ricerca tecnologica a partire dagli ancora inesplorati orizzonti dell’intelligenza umana prima di abdicare a quella artificiale.
La “pre-occupazione” etica dei ricercatori e medici credenti ha fatto dimenticare loro la cultura della “occupazione” quotidiana che attende di essere vissuta con l’originalità, la lucidità, la creatività e la determinazione nella tensione “cattolica” (secondo l’etimo: universale, intera) ad abbracciare tutti i fattori della realtà che li impegna professionalmente. Solo così sarà evidente a tutti che la moralità nella scienza e nella medicina non toglie nulla, non interrompe i sentieri della ragione e della cura, ma apre vie nuove, soluzioni originali e corrispondenti al desiderio di verità e di bene dell’uomo.