venerdì 10 agosto 2012
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Le celebrazioni per il Centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia hanno riportato alla ribalta nomi sepolti nella nostra infanzia scolastica, come quello dei fratelli Bandiera, patrioti veneziani martiri della causa risorgimentale. Furono i pendii della Sila affacciati sullo Ionio a far da quinta alla tragica vicenda di Emilio e Attilio Bandiera, disertori della marina austriaca, che nel giugno 1844 partirono da Corfù con l’idea di sostenere la rivolta cosentina, scoppiata a marzo ma nel frattempo già domata, e sollevare la Calabria contro i Borbone. Partirono in ventuno, come se in ventuno si potesse fare un’insurrezione (ma fu grazie a simili sogni che fu fatta l’Italia) e sbarcarono alla foce del Neto. In cammino verso la Sila furono traditi da uno dei compagni e alle porte di San Giovanni in Fiore vennero affrontati dalle guardie borboniche presso la Stragola, località dove oggi sorge un cippo commemorativo. Nello scontro furono tutti catturati a accezione del brigante Meluso, che riuscì a fuggire. Condannati a morte, i fratelli Bandiera e sette compagni furono fucilati nel Vallone di Rovito, presso Cosenza, il 25 luglio 1844. La presenza del brigante Giuseppe Meluso, di San Giovanni in Fiore, tra i diciannove compagni dei Bandiera è una delle tante conferme del carattere politico del brigantaggio calabrese, che ebbe grande diffusione nell’Ottocento, con le figure di ex ergastolani, ex ufficiali borbonici, ma anche ex Garibaldini, come il celebre Pietro Monaco, che combatté contro i baroni schierati, non disinteressatamente, coi nuovi governanti. In zone come la Sila le spaventose condizioni di povertà delle masse contadine dopo l’Unità d’Italia contribuirono ad alimentare questo fenomeno al punto da fargli assumere i connotati di una ribellione popolare contro i Piemontesi. Vent’anni dopo lo scontro della Stragola si combatteva in Sila una battaglia feroce, in cui i "briganti" locali affrontavano l’esercito piemontese con l’intento di restaurare il regno borbonico. L’inutile attesa della riforma agraria; l’inattuata distribuzione delle terre, promessa da Garibaldi, a chi le lavorava; l’inasprimento delle tasse; l’abolizione dei diritti di pascolo e legnatico sui possedimenti della corona borbonica; l’assegnazione ai latifondi dei terreni confiscati alla Chiesa; il servizio di leva obbligatorio: l’Unità d’Italia aveva portato solo delusioni e disillusioni, sentimenti che i briganti seppero interpretare. Secondo Norman Douglas l’ultimo bandito della Sila fu Gaetano Ricca, datosi alla macchia sul finire dell’Ottocento e glorificato da una taglia e da plotoni di carabinieri sulle sue tracce. Catturato e imprigionato per vent’anni, scontò la pena e tornò in Sila per trascorrere in pace la vecchiaia nella sua casa di Parenti. Eccentrico scrittore britannico, celebre per il romanzo Vento del sud, Norman Douglas ci consegna, attraverso le pagine di Old Calabria (1915), una delle più suggestive descrizioni della Sila. Dai suoi taccuini di viaggio emerge l’immagine di una vasta selva impenetrabile, uno scrigno di wilderness e mistero, sorprendente per il suo aspetto così "nordico": un pezzo di «Scozia nel Mediterraneo». Ai primi del Novecento la Sila era ancora una foresta quasi inaccessibile, appena sfiorata dall’uomo, dove la natura continuava il suo miracolo da epoche immemorabili. Un angolo di paradiso, che solo pochi anni dopo sarebbe stato gravemente intaccato da un’opera dissennata di disboscamento. Nonostante ciò, l’altopiano silano resta ancora oggi, con oltre 150.000 ettari di superficie alberata, quel "bosco" per antonomasia, cui fa riferimento il suo nome. Situato al centro della penisola calabrese, la Sila è il cuore selvaggio della regione, tradizionalmente suddiviso in tre parti. La Sila Greca a settentrione, che deve il suo nome agli influssi culturali bizantini e albanesi. La Sila Grande, vasto e ondulato centro dell’altopiano, che si caratterizza per la presenza di grandi laghi (Arvo, Cecita, Ampollino) e foreste di conifere, tra cui spiccano la Fossiata e il Fallistro, coi suoi colossali esemplari di Pino Laricio Calabrese, patriarchi vegetali con tronchi colonnari alti fino a 45 metri. La Sila Piccola, a sud del Lago Ampollino, connotata da habitat più angusti e dalla presenza di foreste di faggi plurisecolari in associazione con maestosi esemplari di abete bianco. Ma la storia della Sila non è fatta solo di boschi e di briganti. Uno dei più illustri frequentatori di questa montagna fu Gioacchino da Fiore, teologo e abate, fondatore dell’ordine florense, che ha lasciato una traccia indelebile nelle anime e in luoghi come San Giovanni in Fiore. In fuga dalle moltitudini che accorrevano ad ascoltarne la predicazione, nel 1188 Gioacchino si ritirò sulla Sila, dove, raggiunto dai discepoli, fondò il monastero di Iure Vetere, prima abbazia dell’ordine florense, terminata nel 1198, due anni dopo l’approvazione papale della nuova congregazione. Devastato da un incendio nel 1214, il cenobio venne trasferito da Matteo, successore di Gioacchino, in un luogo meno ostile, qualche centinaio di metri più a valle, alla confluenza tra i fiumi Neto ed Arvo. L’imponente edificio, sorto in un luogo sperduto e di difficile accesso, è oggi nel cuore del borgo di San Giovanni in Fiore, piccola capitale della Sila. Nel corso del tempo l’abbazia ha subito numerosi rimaneggiamenti e modifiche, spesso seguendo le tendenze architettoniche delle varie epoche, che la portarono ad assumere una veste barocca, com’è capitato per tutti gli edifici di culto di San Giovanni in Fiore. Recenti restauri hanno restituito la chiesa all’originaria fisionomia romanica, a eccezione dell’altare maggiore, forse l’orpello più ingombrante del rivestimento barocco. Lo stile barocco è lo stile più attuato in Sila, giacché l’epoca a cavallo tra Seicento e Settecento fu caratterizzata da un diffuso sviluppo economico, che non ebbe purtroppo continuità nei secoli successivi. Per quanto ricca di un inestimabile patrimonio ambientale, culturale e umano, la Sila vive una realtà economica che ne penalizza le aspirazioni, costringendo i suoi giovani all’emigrazione, ora come un secolo fa. Visto che non è più tempo di briganti.
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