Football sliding doors. Un tiro fuori di un centimetro, un palo, una traversa con la palla che rimbalza sulla linea, un rigore sbagliato e la partita cambia, e non solo la sua storia. Tutto questo accade spesso in giugno. Che non è solo il tempo degli Europei di Francia 2016, ma è stato – e forse lo sarà ancora – il mese in cui la “Storia” ha subito arresti e accelerazioni improvvise seguendo la scia impazzita di un pallone su un campo di calcio. Tre episodi eclatanti del Football sliding doors hanno per protagonista, diretta e indiretta, una delle grandi regine di quello che a Baires chiamano fútbol, l’Argentina.
Il 25 giugno 1978 allo stadio Monumental di Buenos Aires il generale Alfonso Videla, fiero nel suo cappotto consegnava la coppa del mondo nelle mani della Selección, dell’anarchico ct César Luis Menotti. Quel giorno della finale farsa contro l’Olanda orfana di Johan Cruijff (aveva rinunciato per timore di rapimenti), all’Esma, la Scuola Meccanica dell’Esercito, pare che nessun prigioniero fosse stato torturato con le disumane picana eléctrica e il trionfo del Mundial servì a silenziare il genocidio dei desaparecidos e purtroppo a consolidare il famelico regime militare.
Il 22 giugno 1986 allo stadio Atzteca di Città del Messico l’apparizione terrena della Mano de Dios: il gol segnato di mano all’Inghilterra dall’eterno leader argentino Diego Armando Maradona. Un’autentica “rete di rapina” che per gli argentini rappresenta la più efficace rivendicazione di un popolo ferito dall’assurdo conflitto a difesa delle isole Malvinas-Falkland.
Terzo atto: un rigore sbagliato e che forse ha cambiato le sorti della ex Jugoslavia. Era il 30 giugno 1990, l’estate delle notti magiche del Mondiale italiano, allo stadio Franchi di Firenze va in scena Jugoslavia-Argentina. La partita al 90’ si chiude sullo zero a zero. Si va ai rigori e in una sequenza dal dischetto più thrilling che mai si consumò l’errore fatale del terzino Faruk Hadžibegic detto “Kalz”, per via dello stile somigliante al collega tedesco. Il capitano della Jugoslavia (l’ultimo, nel marzo del ’92, ad indossare la fascia al braccio della casacca della nazionale della Repubblica Socialista Federale) consegnò la semifinale all’Argentina di Maradona che vinse ai rigori 3-2. «Quell’errore è diventato, nei Balcani, l’emblema del diverso destino che avrebbe potuto avere il Paese se un’eventuale vittoria avesse fatto risorgere, dalla Slovenia alla Macedonia, un nazionalismo jugoslavo». Così scrive Gigi Riva, non il mito del Cagliari e della Nazionale, ma il caporedattore centrale dell’Espresso, il quale, partendo dalla microstoria del rigore sbagliato da Hadžibegic ha scritto un libro da autentico fuoriclasse del genere memorie di cuoio, L’ultimo rigore di Faruk.
Quando il 33enne bosniaco Hadžibegic andò incontro alla sfida contro il destino di un popolo, il padre padrone della Repubblica federale slava Tito era già morto da dieci anni. Un anno prima, l’apocalittico 1989 della caduta del Muro di Berlino, Riva ricorda che le prime a fiutare il vento di guerra tra le genti slave «furono le curve degli stadi». Li si annidavano (e si annidano ancora) i covi degli ultrà nazionalisti, allora sempre più insofferenti del centralismo di Belgrado. La cartina di quella Jugoslavia tracciata da Riva: «Sloveni e croati si dicono stanchi di mantenere i fratelli ripudiati del sud grazie alle loro tasse (argomento formidabile per tutti i movimenti separatisti). In Bosnia, invero e timidamente si riscopre una matrice turca. In Kosovo gli albanesi invertono la proporzione demografica perché fanno molti più figli, diventano stragrande maggioranza e vogliono anch’essi l’indipendenza. A Belgrado complice l’anniversario della battaglia di Kosovo Polje (1389) viene rilanciata l’idea della Grande Serbia». Il 19 marzo dell’89 Grobari i “Becchini” gli ultrà del Partizan sconfitto in casa dalla Dinamo Zagabria scatenarono un inferno a Belgrado i cui effetti vennero interpretati come prove tecniche di guerra. Ma la madre di tutte le partite che ha scatenato la tragica frantumazione della ex Jugoslavia è considerata quella tra la Dinamo Zagabria e la Stella Rossa di Belgrado. Maggio 1990. Dalla curva degli ultrà serbi (circa tremila) all’improvviso si alzò funesto il grido «Uccideremo Tudman! », ovvero Franjo Tudman, l’uomo dell’indipendenza croata – fresco vincitore delle elezioni politiche di quel 6 maggio a capo del suo partito Hdz –, l’antagonista dell’allora leader dei serbi Slobodan Miloševic.
Tutto questo accadde alla vigilia di Italia ’90, e allo stadio Maksimir di Zagabria teatro dell’inizio simbolico del conflitto fratricida una targa ricorda i suoi “eroi”: «Ai sostenitori della squadra che in questo terreno iniziarono la guerra contro la Serbia, il 13 maggio 1990». Ecco perché se quel rigore di Faruk fosse entrato in rete e la Jugoslavia dei geni irregolari – Stojkovic, Savicevic e Prosinecki (gli «argentini d’Europa ») – avessero eliminato la Selecciòn (che a sua volta fece fuori l’Italia di Azeglio Vicini e poi perse la finale di Roma contro la Germania) forse oggi ci troveremo di fronte a un altro scenario geopolitico. Riva ci invita a riflettere sul fatto che il nome di Hadžibegic «sta scritto nella stessa riga del libro che contempla Kohl e Delors, Gorbaciov e Miloševic». La storia minore, quella di un gioco universale come il calcio, ha fatto il grande salto nella storia maggiore. «Il rigore di Faruk è trasvolato dal calcio, si è fatto passaggio cruciale, leggenda». Quando oggi il sessantenne Hadžibegic torna a Sarajevo ad ogni dogana delle sei repubbliche in cui è stata smembrata la ex Jugoslavia (Slovenia, Croazia, Serbia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro e Macedonia - più le due province autonome di Kosovo e Vojvodina) non c’è adulto che non gli rammenti di quel rigore, né un giovane che non gli chieda un selfie o un autografo per il padre dal quale ha sentito raccontare mille volte di quel giorno di ventisei anni fa in cui la storia collettiva prese un’altra traiettoria.
Ma «più passa il tempo più la benevolenza prevale sul rimprovero. L’eroe soccombente è comunque eroe. Ettore non è meno valoroso di Achille, nel suo lato fragile anche più simpatico», scrive Riva. L’Ettore Faruk, l’ultimo capitano della Jugoslavia unita, dopo essersi inventato una seconda vita in Francia (ha giocato nel Sochaux e nel Tolosa ed ora allena il Valenciennes), ha compreso a pieno ciò che allora gli era sfuggito come quel tiro decisivo. Se chiude gli occhi e ripensa a quell’estate italiana gli torna alla mente che in quei giorni «c’erano pressioni. Dovevo stare attento al nome, alla religione alla provenienza, dovevo calcolare tutto». «Perché?», gli ha chiesto Riva. E la risposta di Faruk riporta il match dal campo di calcio a quello di battaglia. Perché «ogni club in Jugoslavia era politica, soprattutto la nazionale era politica. Ma non credo vada diversamente altrove... ». Già, ovunque, non è cambiato molto da allora, specie nei Balcani in cui «lo sport come la guerra, non è una metafora. La guerra è prosecuzione dello sport con altri mezzi».