La folksinger Joan Baez compie oggi 80 anni - Epa / Martial Trezzini
Nel 2018, per l’ultimo tour, aveva scelto un titolo, Fare thee well, che in inglese significa «Addio », ma anche «Arrivederci». Nel 2018, Whistle down the wind, «Fischiettare nel vento», un brano di Tom Waits e Kathleen Brennan, era diventato il titolo dell’ultimo disco e una delle sue dieci tracce. Il vento che soffiava, quello di Blowin’ in the wind, lo aveva cantato infinite volte, da sola o con Bob Dylan. C’era in quei due titoli, o almeno fa bene al cuore immaginarlo, il desiderio di un congedo mai definitivo dall’immenso pubblico che continua ad amare la sua musica, capace di raccontare con la dolcezza delle note la violenza delle guerre e delle dittature, la segregazione razziale, l’orrore della pena di morte, la disperazione degli emarginati, l’amore privo di speranza.
Joan Baez compie oggi ottant’anni. La ragazza dai lunghi capelli neri è adesso una bella signora dalla corta chioma bianca. La voce che le valse il soprannome di “Usignolo di Woodstock”, si è fatta appena un po’ più grave. Un traguardo, i suoi 80 anni, che invita a ripercorrerne il cammino non solo artistico, e così comprendere perché la sua musica non conoscerà la malinconia del tramonto.
Che il mondo non è uguale per tutti, Joan Chandos Baez, New York 1941, lo impara molto presto. Il padre, fisico e matematico messicano, in nome del pacifismo rifiuta di lavorare a progetti ben remunerati per lo sviluppo delle armi atomiche, scegliendo di insegnare; a scuola, i tratti meticci di Joan, la madre ha origini scozzesi, sono oggetto di derisione e di isolamento da parte dei compagni. Nel 1958, Albert viene chiamato al Mit (Massachusetts institute of technology) di Cambridge, i Baez si trasferiscono nella vicina Belmont, Joan si iscrive alla Boston University. Qui conosce la futura folksinger Debbie Green, che l’avvia allo studio della chitarra e la sprona ad affinare le già straordinarie doti della sua voce. Sempre grazie a Debbie, Joan scopre le ballate della musica popolare.
Harvard, l’università che Richard Nixon definirà «il Cremlino sul fiume Charles», è a pochi chilometri, fucina della ribellione culturale e politica al sogno americano. Una giovane e spaesata Baez inizia ad esibirsi sul palco del Club 47, uno dei tanti sulla Harvard Square. Le rare foto dell’epoca la ritraggono chitarra in pugno, piedi nudi, capelli sciolti. Succede che una sera, tra la gente di un concerto, ci sia un altro Albert, di cognome Grossman, produttore musicale. E che Grossman inviti Joan a suonare nel suo locale. Lì, Bob Gibson, figura di spicco del revival folk, dopo averla ascoltata decide di portarla all’edizione 1959 del Newport Folk Festival. Un trionfo.
Nel 1960, la Vanguard Records mette Joan Baez sotto contratto. Nome e cognome danno il titolo al primo disco, in verità il secondo. Con Bill Wood e Ted Alevizos aveva infatti registrato qualche mese prima Folksinger’s around Harvard Square, passato inosservato. L’esordio vero e proprio non suscita particolari clamori, ma la Vanguard ci crede e con Joan Baez volume 2, 1961, taglia il traguardo del Disco d’oro. Plaisir d’amour nella versione Baez spopola.
Lo stesso anno, in un locale di Cambridge, Joan ascolta cantare un giovane magro, riccioluto, voce sgraziata che colpisce nell’anima. Si chiama Bob Dylan. La sua chitarra accompagna parole e musica schierate dalla parte degli eterni perdenti. L’allora sconosciuto Bob sarà il motore di una svolta che porterà Baez a definire il proprio repertorio, conferendogli l’impronta indelebile dell’impegno sociale. Bob sarà l’altra metà di un amore usurante, tenuto insieme fino al 1965 da We shall overcome, Farewell Angiolina, Blowin’ in the wind, With God on your side; dai trionfi del 1963 al Festival di Monterey e al Newport Folk Festival, dalla Marcia per la Libertà al Lincoln Memorial di Washington, cantando per Martin Luther King.
Via via, però, le distanze tra i due si acuiscono. Dylan è ormai una star planetaria che mette la musica davanti a tutto. Joan è una militante che mette la musica in prima linea per la pace e la difesa dei diritti. Nel 1967, la ragazza capelli neri e piedi scalzi vive un altro amore importante, quello per David Harris, giornalista e attivista conosciuto in carcere a Oakland, quando viene arrestata durante un sit in. A lui dedica David’s album, 1969. Il loro matrimonio durerà cinque anni. Sit in e veglie di protesta vanno di pari passo con la partecipazione di Joan ai raduni oceanici di Woodstock, 1969, e sull’isola di Wight, 1970, dove Leonard Cohen le dedica pubblicamente la meravigliosa The partisan: «A tutti i combattenti, a Joan Baez e al lavoro che sta facendo». Sempre del 1970 è Here’s to you, scritta da Ennio Morricone per il film Sacco e Vanzetti. Joan riesce a farne la nuova We shall overcome.
Nel dicembre 1972, ad Hanoi, la tremenda esperienza dei “Bombardamenti di Natale”. Quegli undici giorni di inferno scatenati sul Nord Vietnam dagli americani saranno il filo conduttore dell’album Where are you now, my son? Quello successivo, Gracias a la vida, quattordici brani in spagnolo, rende omaggio alle vittime del golpe cileno di Augusto Pinochet. Nel 1974 l’Usignolo di Woodstock sfida i dittatori di Venezuela, Argentina e Brasile tenendo concerti clandestini che richiamano migliaia di spettatori.
L’elenco delle sue battaglie a colpi di chitarra la vedrà a San Francisco col leader della comunità omosessuale Harvey Milk, in seguito assassinato; al Live Aid londinese del 1985, a Sarajevo durante la guerra dei Balcani, nel tour Cospiracy of Hope per Amnesty International. Cinquantaquattro album, sessant’anni di carriera, Joan Baez rimane una figura ineguagliata e ineguagliabile tra gli artisti che hanno fatto della musica un’arma per combattere i soprusi, le discriminazioni, il razzismo, lo sfruttamento. Buon compleanno, signora Baez, e fare thee well. Non addio, ma arrivederci.