sabato 18 maggio 2024
Per il filosofo la tradizione cristiana è nata dalla straordinaria novità di Cristo vissuta ogni giorno. Allora dobbiamo chiederci: in che modo e in quali luoghi continua ad accadere questo?
Il filosofo Costantino Esposito

Il filosofo Costantino Esposito - Siciliani

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Prosegue il dibattito su cattolicesimo e cultura. In precedenza sono intervenuti Sequeri, Righetto, Gabriel, Forte, Petrosino, Ossola, Spadaro, Giaccardi, Lorizio, Massironi, Giovagnoli, Santerini e Cosentino, Zanchi, Possenti, Alici, Ornaghi e Rondoni (tutti gli interventi sono disponibili QUI).

Esiste ancora un pensiero cristiano nel nostro tempo? Non parliamo solo della tradizione che ha segnato in maniera evidente la storia di molte società, specie di quella italiana. Su questa tradizione non vi sono dubbi, sebbene ci si potrebbe interrogare sul fatto che oggi essa sembra rimanere, appunto, qualcosa del passato. Parliamo piuttosto di un pensiero cristiano come esperienza vivente, che stia nel tempo presente con la capacità originale di comprendere le domande fondamentali che emergono dalla vita delle persone e che possa contribuire a riconoscere un senso che illumini la storia di ciascuno, a livello personale e sociale.
Il dibattito lanciato da Avvenire sulla crisi di identità e di incidenza della cultura cattolica, a partire dalle provocazioni di Pierangelo Sequeri e Roberto Righetto ha avuto il merito di riproporre alcune questioni di fondo, da cui dipendono tutte le conseguenze a livello di espressione e di comunicazione: da che tipo di esperienza nasce una presenza culturale cristiana? Qual è il suo “soggetto” proprio? E quale metodo essa è chiamata a seguire per restare fedele alla sua natura?

A questo riguardo vorrei proporre tre punti di verifica di tali questioni in un’epoca segnata da una tendenza “nichilistica” riguardo al senso dell’umano e alla verità del mondo. Intanto, un’osservazione spassionata: oggi ci troviamo in una situazione analoga, come sfida, a quella degli inizi dell’esperienza cristiana, la quale ha fatto irruzione come un seme di novità assoluta nel contesto storico dell’Impero romano. Un inizio che a posteriori può sembrare difficile e problematico, tanta era la differenza rispetto al mondo pagano e anche rispetto a quello ebraico da cui pure nasceva, ma che per i suoi protagonisti era soprattutto affascinante. Di quel fascino imprevedibile e irresistibile che attrae l’io e lo libera dai canoni delle consuetudini culturali, religiose, morali e politiche. I primi cristiani vivono la loro esistenza come un essere-presi e il loro presente (come una volta ha osservato acutamente Heidegger) non è mai solo il risultato del loro passato, ma è il modo con cui si vive, ora, l’attesa del futuro. Il passato dei cristiani, infatti, non è qualcosa che passa via, ma è Uno che viene. È il futuro, l’apertura a quest’Altro che continua a venire e a toccarmi, l’inizio del tempo per queste persone prese da Cristo.

E qui scatta l’analogia profonda: anche nella nostra epoca l’esperienza cristiana – per sua stessa natura, non solo perché costretta dall’erosione della cristianità – può iniziare solo per una simile attrazione, e non più a partire dalla sua pur grandiosa tradizione. Il problema di coloro che hanno iniziato a essere cristiani non era e non è pensabile come un progetto di elaborazione culturale. È stato vero piuttosto il contrario: quell’inizio portava in sé il principio che ha fatto fiorire un’impressionante costruzione di civiltà, la quale nasceva appunto da una particolare esperienza della vita. La cultura non può che nascere dalla vita; ma non sempre, anzi quasi mai, vale l’inverso. Per cui nessuna analisi sulla perdita di incidenza della cultura cattolica nel nostro tempo e nessun suggerimento “terapeutico” possono prescindere dal riproporre il problema dell’inizio. Nella storia cristiana, infatti, l’inizio non è archeologico, ma esistenziale; l’inizio è ora: come una linea perpendicolare che attraversa, incrocia e “taglia” per così dire ogni momento del tempo che passa.

Da questo punto di vista, le chiavi interpretative abitualmente adoperate per spiegare il fenomeno dell’epoca post-cristiana – prima fra tutte quella della “secolarizzazione” – raddoppiano il problema più che chiarificarlo. Il punto focale infatti non riguarda tanto il perché la tradizione cristiana abbia perso il suo appeal e la sua efficacia culturale, ma al contrario da quale esperienza di novità è potuta nascere quella tradizione e in che modo, in quali luoghi, in quali forme continua a rinascere oggi. Tra l’altro i più attenti studi sulla secolarizzazione la interpretano non solo come una perdita di valori della tradizione religiosa, ma come una chance, un’occasione per poter scegliere nuovamente e liberamente di aderire all’incontro con il cristianesimo. Lo ha rilevato ancora una volta Charles Taylor nel suo ultimo libro apparso in italiano, Questioni di senso nell’età secolare (Mimesis 2023).

Il secondo punto di verifica della perdita di vivacità della cultura cattolica oggi, va riferito al fatto che essa non sembra avere come suo focus principale il desiderio dell’io. E quando un annuncio che viene dal passato non interferisce più con questo desiderio e non attecchisce in esso, diventa semplicemente non desiderabile. Certo, il desiderio è anche qualcosa di scabroso, di pericoloso, perché potrebbe tracimare nel soggettivo e nell’arbitrario. Ma esso è anche qualcosa di infinito, che porta in sé il rapporto a una realtà infinita. È il principio rivoluzionario del cristianesimo rispetto alla paura pagana della hybris e ai tentativi sempre ricorrenti (anche oggi) di moderare il pericolo della dismisura attraverso la moralizzazione dei comportamenti. L’esperienza cristiana, al netto di tutte le riduzioni moralistiche che nei secoli l’hanno sempre tentata, ha scelto di puntare alla liberazione del desiderio piuttosto che alla sua mortificazione. Potrebbe sembrare paradossale per l’abituale concezione della morale cattolica, ma il desiderio resta la grande via per poter riconoscere il mistero di un incontro che si rivela all’altezza dell’attesa del cuore e della ragione umana. «C’è qualcuno che desidera la vita e brama lunghi giorni per gustare il bene?» dice il Salmo 34 all’inizio della Regola di san Benedetto, dal cui carisma è letteralmente nata la grande civilizzazione dell’Europa?

Puntare a questo desiderio dell’infinito non significa affatto piegare il cristianesimo a un relativismo individualistico: significa al contrario mostrare la dinamica fondamentale della stessa comunità cristiana. Se è Cristo che fa l’unità del suo popolo, la fa in quanto ridesta attraverso la sua presenza storica il desiderio di vita e di felicità di ciascuno. Il desiderio costituisce sempre la possibilità personale di attivare processi culturali e sociali nuovi. Se una cultura cattolica covasse in sé la paura nei confronti del desiderio, al pari della paura nei confronti della libertà, si limiterebbe a prevenire i rischi, a limitare i danni, a dettare i doveri verso cui orientare dall’esterno l’esperienza delle persone, ma in definitiva non saprebbe più cos’è questa esperienza dal suo stesso interno.

Infine, se dovessi individuare la dinamica con cui nell’esperienza cristiana nasce e si sviluppa una cultura all’altezza dei desideri più profondi e dell’esigenza di libertà degli esseri umani, direi – in controtendenza rispetto allo standard della concezione cattolica della vita – che è una cultura che si afferma proprio ridestando, valorizzando e incrementando le domande, senza accontentarsi di trasmettere delle risposte già sapute e tramandate. O meglio, le risposte vere alle domande umane sono quelle che non tolgono queste domande ma le fanno sempre rinascere. Non è forse questo, sin dall’inizio, il metodo di Cristo? Quando Gesù incontra per la prima volta Giovanni e Andrea non propone loro una spiegazione né un discorso o un precetto morale (di questo era già piena la loro pratica religiosa), ma proprio Lui che era la risposta presente, chiede loro: «Che cosa cercate?» (Giov 1, 38). Così “accade” la risposta: nel provocare la domanda di fronte alla quale potrà dirsi e darsi come risposta.

L’aveva scritto magnificamente già nel 1966 il giovane teologo Joseph Ratzinger: «La vitalità della risposta cristiana» – quindi la sua capacitò di diventare cultura – «esige fondamentalmente l’esperienza vitale della domanda; l’annuncio cristiano non può che ricevere continuamente da questa domanda la sua vita e la sua realtà nell’umanità» (da Chiesa aperta al mondo?). L’ha rilanciato papa Francesco nell’introduzione al libro Domande di Dio, domande a Dio. In dialogo con la Bibbia di Timothy Radcliffe e Lukasz Popko (LEV 2023): «Il cristianesimo si è sempre posto vicino a chi si interroga, perché – ne sono convinto – Dio ama le domande, le ama davvero. Penso che ami più le domande delle risposte. Perché le risposte sono chiuse, le domande rimangono aperte».

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