Ernesto Buonaiuti
“Voi Buonaiuti avete preposto una cattedra universitaria al sacerdozio”, disse deluso nel 1925 Padre Agostino Gemelli ad Ernesto Buonaiuti, nel suo estremo tentativo di evitargli l’ultima scomunica. La condizione posta era la rinuncia alla sua cattedra di storia del cristianesimo all’Università la Sapienza di Roma, che Buoaniuti aveva vinto in seguito a concorso pubblico nel 1915. Buonaiuti rifiutò, e la scomunica di Pio XI fu la più grave tra quelle possibili: espressamente vitando. Così Buonaiuti commentava nel 1945 quell’incontro nel suo libro autobiografico Pellegrino di Roma: la generazione dell’esodo: “Gli eventi dovevano provvidenzialmente dimostrare che non la cattedra avevo preposto al sacerdozio: avevo preposto la cattedra a un sacerdozio di cui la cattedra era l’insegna e il campo di lavoro. Il giorno in cui al mio insegnamento universitario fu imposta una clausola e fu chiesto un giuramento che costituivano la manomissione della mia dignità e della mia coscienza, non esitai a farne gettito e segnare la mia rinuncia. Fu nel 1931” (p. 252). Il professor Buonaiuti, infatti, non rinunciò alla sua cattedra per una fedeltà costosissima alla sua coscienza, alla sua vocazione e alla sua dignità.
Quella non rinuncia gli consentì di fare di quella cattedra salvata uno degli atti etici più grandi della storia cattolica italiana durante il fascismo: Buonaiuti fu tra i dodici accademici che non giurarono al fascismo. Aveva custodito la sua anima e così la esercitò di fronte agli oltre 1200 accademici cattolici e laici che per le più varie ragioni fecero invece quel giuramento sbagliato. Buonaiuti fu l’unico sacerdote tra quei dodici, altro paradosso di questa tremenda e stupenda storia: uno scomunicato consentì che tra quei nomi ci fosse anche quello di un prete cattolico, scomunicato ma sempre prete - lui ha sempre rivendicato la irrevocabilità del sacerdozio: “Tu es sacerdos in aeternum”. Quel no a un sistema pagano e disumano, che lo fece vivere in miseria nell’ultima parte della sua vita espulso dalla Chiesa, dalla società e dall’accademia, fu uno degli gesti più alti del suo sacerdozio e del suo essere cristiano.
All’odissea esistenziale di Ernesto Buonaiuti (1881-1946), Giordano Bruno Guerri aveva dedicato nel 2001 un’ampia biografia dal titolo Eretico e Profeta (Utet). Ora viene ripubblicata per La nave di Teseo con il titolo Eretico o Santo? (2022), una nuova edizione inesplicabilmente senza l’essenziale apparato di note della prima edizione, che rende a tratti molto arduo seguire la trama delle belle storie raccontate - una ripubblicazione della stessa edizione del 2001 sarebbe stata una scelta molto più felice, visto anche che l’ultimo capitolo su papa Francesco "modernista" appare estraneo all’economia del racconto.
Il saggio di Guerri ha il grande merito di farci scoprire o riscoprire Ernesto Buonaiuti, una figura per molti versi straordinaria della storia della Chiesa e società italiana ed europea del XX secolo, che ancora attende un adeguato posto tra i profeti cattolici del Novecento. Una storia ricca e dolorosissima di una personalità che per talento, cultura e qualità intellettuali va accostata, in Italia, a Rosmini, Gramsci o Pasolini. Uno studioso eccezionale, scrittore instancabile, docente stupendo, conoscitore delle principali lingue antiche e moderne, con una erudizione quasi infinita e una prosa felicissima che negli ultimi anni spesso fioriva in poesia.
Come ha scritto A.C. Jemolo, nell’Introduzione alla seconda edizione (del 1964) di Pellegrino di Roma, una breve nota che rimane la più bella e intensa biografia del Buonaiuti, che con Jemolo aveva intrattenuto una viva amicizia: “molte pagine della Storia del Cristianesimo sono tra le più belle, le più dense, scritte nell’ultimo cinquantennio” (p. viii). Sempre Jemolo ci ha donato lo schizzo più nitido del carattere di Buonaiuti: “La sua personalità era d’incredibile ricchezza; sensibile come pochi al fascino della natura, della montagna, del bosco, delle sere trascorse in un rifugio alpino, appassionato di musica, aperto alla comprensione di ogni forma d’arte, attento ad ogni ramo del sapere. Ma soprattutto c’era in lui una straordinaria capacità di contatti umani; durante una gita in montagna sostava talora con un pecoraio ed intrecciava con lui una conversazione ricca d’interesse per entrambi; poteva conquistare l’affetto di un bambino” (p. ix).
Profondamente romano, dove nacque (il 25 giugno in via di Ripetta), visse e morì, fu anche autentico cittadino europeo e cosmopolita. Studiò nel Seminario romano dove era entrato per una vocazione genuina, talmente genuina che la sospensione a divinis e poi il divieto di indossare l’abito talare furono tra le tante condanne quelle che più lo addolorarono. In seminario fu compagno, tra gli altri, del suo coetaneo Angelo Roncalli. L’esperienza intellettuale nel Seminario Pontificio Romano di Sant'Apollinare fu nell’insieme deludente: “I miei professori di teologia dogmatica e di teologia sacramentale sembravano non nutrire altra preoccupazione che quella di mostrare la continuità senza soluzioni della primitiva rivelazione cristiana, chiusasi con gli apostoli, fino a noi, e sembravano non prefiggersi altro compito di manodurre noi allievi alla constatazione di questa continuità, attraverso una serie sapientemente distribuita di testimonianze patristiche ed ecclesiastiche, convalidando la diretta dipendenza delle attuali posizioni della teologia ortodossa dalle fonti infallibili della rivelazione scritturale”. Sul suo professore di Storia della chiesa, così commenta: “Il Benigni fissandomi in viso con le sue pupille nerissime, in atto di sarcastico disdegno per i miei voli di speranza e di ottimismo, scandì, con la sua lieve balbuzie, questo tremendo aforisma: ‘mio buon amico, credete proprio voi che gli uomini siano capaci di qualche cosa di bene nel mondo? La storia è un continuo e disperato conato di vomito, e per questa umanità non ci vuole altro che l’Inquisizione’. Rimasi esterrefatto!” (Pellegrino di Roma, pp. 49-51).
Un appuntamento mancato con la storia
Ripercorrere la vita di Buonaiuti significa compiere più esercizi: entrare nel cuore della vita della Chiesa cattolica, romana in modo particolare, della prima metà del secolo XX, dei suoi paradossi e dei suoi fermenti di rinnovamento; comprendere da prospettive diverse la nascita e sviluppo del fascismo e le ambivalenze tenute nei suoi confronti dalla gerarchia cattolica; assistere all’atteggiamento ambiguo del mondo culturale laico, che in alcuni suoi esponenti non fu meno crudele del Vaticano nei confronti di Buonaiuti.
Buonaiuti inizia la sua attività intellettuale nel periodo di pieno sviluppo di quel movimento di studi biblici, storici e teologici noto come “Modernismo”, un’espressione che Buonaiuti non ha mai amato. Nel 1901, l’anno del battesimo del Modernismo italiano (con la pubblicazione del primo numero di "Studi religiosi", la nuova rivista di Salvatore Minocchi), Buonaiuti ventenne scrisse il suo primo articolo sotto forma di lettera anonima (firmato "novissimus") inviata a "Cultura sociale" la rivista di Romolo Murri, altro protagonista del movimento, una lettera che gli costò la revoca del posto gratuito come interno del Seminario romano.
Nel 1903 è ordinato sacerdote, e fino al 1905 scrisse decine di articoli e note, quasi tutti anonimi o firmati con pseudonimi. Di quella breve primavera del modernismo Buonaiuti subì forte fascino, perché lo vedeva come un processo di necessario rinnovamento per la Chiesa cattolica del suo tempo, ancora impermeabile agli studi critici sulla Bibbia che si stavano da molti decenni affermando nel mondo protestante. Accogliere gli studi scientifici e storici sulla Bibbia era per Buonaiuti la via maestra per l’incontro della Chiesa con la modernità. Un incontro che invece non ci fu, perché la Chiesa cattolica era ancora dominata dai teoremi della teologia neo-scolastica e bloccata dalla paura controriformista che i venti protestanti potessero finalmente invadere il corpo cattolico.
La storia del Modernismo è quella del fallimento del dialogo tra la Chiesa cattolica, la sua teologia e la sua concezione della Sacra scrittura con il mondo moderno, che ha ritardato di almeno settant’anni l’ingresso nella cultura cattolica (nelle sue università, nella formazione dei sacerdoti, delle suore, dei laici) di tutta quella stagione di dati archeologici, storici ed esegetici che avrebbero profondamente trasformato il ruolo del cristianesimo nella modernità e post-modernità. Un appuntamento mancato nel suo momento propizio (il Concilio arrivò sessant’anni dopo), probabilmente per sempre.
Ernesto Buonaiuti e la questione del Modernismo
Il Modernismo è un protagonista importante di questa storia, anche se Buoaniuti fu qualcosa di più e di diverso di un esponente del modernismo, soprattutto nella seconda parte della sua vita. Anche perché il movimento modernista fu, in se stesso, realtà complessa ed eterogenea. A Buonaiuti del pensiero di Loisy e del Tyrrell, i due fondatori del Modernismo, interessavano soprattutto il desiderio di tornare allo spirito del cristianesimo primitivo e la libertà della ricerca scientifica e storica sulle fonti dei primi secoli cristiani. Era anche interessato alle questioni teologiche e dogmatiche, ma per ritrovare “l’essenza del cristianesimo” (espressione che Buonaiuti riprese da un ciclo di lezioni a Berlino dell’Harnack, altro suo importante maestro), prima che si contaminasse con lo gnosticismo, l’ellenismo e lo stoicismo.
Per Buonaiuti l’essenza del cristianesimo si trova nell’attesa imminente del Regno di Dio, in una dimensione profetica ed escatologica della fede, che lungi dal togliere storicità al cristianesimo gli dona la sola dimensione storica compatibile con il vangelo: “Nulla di più fatuo e di meno cristiano che il credere di poter accusare il vangelo e la cristianità primitiva di illusione, per aver creduta imminente la manifestazione prodigiosa del Cristo trionfante… L’unico modo per la fede è vivere così integralmente tuffata e annegata nella consapevolezza dei valori trascendenti, che si assommano nell’Ideale del Regno… Vivere nell’invisibile, qui tutta l’essenza della fede” (Pellegrino di Roma, p. 88).
L’attesa certa e operosa dell’avvento del Regno è quindi l’essenza del cristianesimo, una essenza che ha una necessaria natura sociale e comunitaria: è una vita diversa, un mondo. A questa tesi è legata la principale accusa rivolta dal Santo Uffizio a Buonaiuti, la presenza reale di Cristo nell’Eucaristia, che in realtà (diversamente da quanto afferma gratuitamente Guerri a p. 77: “in effetti non ci credeva”) Buonaiuti non ha mai negato nei suoi scritti. Lavorando sulle prime comunità cristiana, egli metteva in luce la dimensione comunitaria ed ecclesiale del banchetto eucaristico che aveva anche la funzione di creare e ricreare la comunità cristiana - nella sua tomba volle che fossero impressi i simboli del calice e dell’ostia: “vien spontaneo domandarsi se la trascrizione concettuale e metafisica del mistero eucaristico [legata alla teologia medioevale] non venga a soffocare e a depauperare la efficienza mistica della solidale fraterna partecipazione eucaristica” (Pellegrino di Roma, p. 87). Una posizione troppo vicina alla visione protestante, dissero i suoi detrattori - sebbene il libro di Buoaniuti su Lutero fu criticato soprattutto dai protestanti, ai quali Buoaniuti pur si avvicinò negli ultimi anni della sua vita, trovando nel protestantesimo italiano accoglienza e stima: Buoaniuti era un cattolico con spirito ecumenico.
Mentre Buonaiuti iniziava a studiare scientificamente l’origine del cristianesimo, Freud fondava la psicoanalisi, Einstein scriveva la Teoria della relatività ristretta e Weber i suoi saggi sullo spirito del capitalismo, Croce dialogava (con scarso successo) con Pareto sul “principio economico”, e Poincaré, Mach e Vailati stavano portando la filosofia della scienza oltre il positivismo ottocentesco. L’archeologia biblica e gli scavi in Mesopotamia stavano offrendo materiali sulle religioni medio-orientali dai quali emergevano dati storici nuovi sull’Antico e Nuovo Testamento, e in generale lo spirito scientista e scientifico del tempo spingeva forte per l’applicazione dei metodi scientifici e delle tecniche storico-critiche anche allo studio biblico.
Il mondo protestante fu il primo ad accogliere con entusiasmo queste istanze moderne negli studi della Scrittura, quello cattolico (anche come reazione al mondo protestante) si mostrò molto impaurito di fronte a questa nuova sfida. I primi risultati che si iniziavano a leggere nelle riviste bibliche tedesche e francesi sulla non-storicità dell’Eden e dei primi capitoli della Genesi (che costò la sospensione a divinis al Menocchi), la messa in discussione della non paternità di Mosè dei libri del Pentateuco, l’individuare nei libri biblici tradizioni diverse (già a fine Settecento si iniziava a distinguere la tradizione Javista da quelle sacerdotale, Eloista e deuteronomista), poneva il grande tema dell’ispirazione delle scritture e quindi del fondamento teologico dei dogmi e della fede. Non potevamo aspettarci vita facile per il Modernismo.
Forse potevamo aspettarci qualcosa di diverso nell’atteggiamento nei confronti di teologi e professori accusati di Modernismo. Come potevamo aspettarci qualcosa di diverso dal mondo laico che nelle sue massime espressioni guardò da freddo spettatore e senza spendere una parola di solidarietà per quei loro colleghi le cui idee vennero stroncate dalla gerarchia vaticana.
Leggendo la biografia di Buonaiuti questa indifferenza laica è tra le sorprese più brutte. Croce si limita a scrivere poche ed infelici battute (definendo nel 1907 i modernisti come “dei ritardatari”), e Gentile perfino loda l’enciclica Pascendi di Pio X. Come nota Gramsci, “l’atteggiamento di Croce e di Gentile (e del chierichetto Prezzolini) isolò i modernisti nel mondo della cultura” (citato in Guerri, pp. 82-83). Si venne a creare una bizzarra santa-laica alleanza tra Pio X e il liberalismo (parziale) di Croce e Gentile e della loro scuola, che caratterizzerà lo strano liberalismo del nostro paese e l’ambigua sua reazione di fronte al fascismo - stiamo ancora attendendo qualcuno che sappia fare i conti dei danni procurati all’Italia dall’idealismo di Croce (che Buonaiuti considerava un prodotto totalmente alieno alla cultura latina).
Gnosi e cristianesimo
Nel 1907 Buonaiuti pubblica il suo primo libro accademico importante, Lo gnosticismo, uno studio storico e pionieristico sui primi secoli del cristianesimo che continuava e approfondiva lavori di Salvatore Minocchi, altra figura decisiva (con Genocchi e Fracassini) nella formazione del Nostro - il lungo saggio di Minocchi, Panteon (1914), è uno studio analitico sull’influsso dei riti misterici egiziani e delle tradizioni ellenistiche sul primo cristianesimo; sempre nello stesso anno, nel saggio Cresto e i crestiani il Minocchi sosteneva che la famosa frase degli Atti degli Apostoli (11,26) che “ad Antiochia i discepoli furono chiamati cristiani”, era una tarda testimonianza scritta “tra la fine del primo secolo e la fine del secondo” (Bilychnis, p. 10); il Minocchi è tra i primi che già nel 1906 parlò in un libro della Tutela degli animali e la pietà cristiana (Firenze).
Nello Gnosticismo Buoaniuti mostrava “gli gnostici han cercato di far rientrare pienamente il Vangelo nelle tradizioni pagane, e queste in quello” (1907, p. 278), e che quindi “la storia dello gnosticismo racchiude prezioso insegnamento. Essa mostra i disastrosi effetti che “la vita morale e per la sanità del pensiero produce l’intellettualismo” (p. 280). Il saggio è un eccellente studio sulla cultura del Mediterraneo nei primi secoli cristiani, sui suoi influssi nelle prime sintesi teologiche cristiane, su Marcione e la formazione del canone cristiano, sui neoplatonici e Plotino, i Terapeuti, gli Esseni (siamo ben prima di Qumran) e in generale sulla grande influenza che ebbe il pensiero dualistico mediorientale (Mani, Zoroastro) su tutta la sintesi cristiana.
In questo, un ruolo importante e centrale Buoaniuti lo attribuisce al De Civitate Dei di Agostino, distinguendo un primo Agostino critico del manicheismo e un secondo Agostino neo-manicheo, quando la sua teologia in seguito alla lettura di Paolo, tra il 396 e il 397 “subì sensibili modificazioni” abbracciò una antropologia fortemente pessimistica e tornò a tesi dualistiche, sintetizzate nella teologia due città (S. Agostino, 1917, p. 47).
Come sviluppo dello stesso programma di ricerca, Buonaiuti lavorò su Ireneo e il suo millenarismo, su Tertulliano, Origene e Gerolamo e su molti padri e teologi greci e latini all’origine dei primi concili e i primi dogmi che, per Buonaiuti, portano già iscritti la contaminazione con il pensiero neoplatonico e gnostico: “come mai un movimento cristiano sostanzialmente mistico ed apocalittico si trasformò adagio adagio in un raffinato sistema di speculazione teologico-filosofica?” (Storia del cristianesimo, I, 1942, p. 97). Per Buonaiuti “un certo orientamento gnostico possiamo sostanzialmente ritrovarlo nello stesso autore del IV vangelo canonico… Una gnosi ancora allo stadio incandescente e potenziale” (Ivi, pp. 99-100).
L’influsso gnostico ed ellenistico Buonaiuti la individua nella stessa visione del Logos del prologo di Giovanni, che fu decisiva nella prima dogmatica cristologia e trinitaria: “Il Cristo non era che la concreta individuazione storica di quella figura mistica del logos che già Filone aveva concepito come l’essere medio indispensabile di cui Dio aveva bisogno per entrare in contatto col mondo” (p. 135). Tesi difficili da digerire per il Sant'Uffizio. Per Buonaiuti la Christianitas medioevale e la sua teologia fu una sintesi di vangelo e di molte altre anime pagane: da qui la sua esigenza di tornare al vangelo prima della teologia.
Un altra tesi controversa di Buonaiuti riguardava l’influsso precristiano anche nel primo monachesimo egiziano, costruito attorno all’ascesi, cioè alla ginnastica spirituale ed etica, dimenticando il centro che nel primo cristianesimo aveva la metanoia (conversione), che non è un’ascesi ma un immediato cambiamento di prospettiva e di logica che si compie nel convertito, che entra con un’opzione fondamentale in un altro regno.
Buonaiuti vedeva il primo monachesimo orientale, che influenzò anche quello di Benedetto, come una continuazione delle esperienze mediterranee precedenti il vangelo centrate sulla separazione fisica dal mondo (che per Buonaiuti non era parte dell’essenza del cristianesimo), e ne dà una valutazione quanto meno problematica (anche se apprezzava molto la riforma attorno all’anno Mille di Cluny e dei cistercensi, per la rinnovata dimensione liturgica, lavorativa e comunitaria). Così scriveva nel suo bellissimo saggio Le origini del misticismo cristiano: “Il vocabolo come il concetto dell’ascesi, considerata come un autoprocesso di allenamento e di purificazione interiore, con l’implicita nozione di un dualismo antropologico superabile solo attraverso una serie laboriosa di sforzi e di rinnegamenti, sono estranei all’orizzonte delle esperienze neotestamentari. La ‘metanoia’ evangelica si realizza in un istante e non è affatto il risultato di un lento e penoso tirocinio. La grazie dello Spirito la genera subito nello spirito del credente” (Le origini dell’ascetismo cristiano, 1928, p. 212).
La scomunica e l’ostracismo
Questi primi studi sono particolarmente felici per la freschezza del giovane studioso ma anche per la libertà di spirito di ricerca che venne molto provato e condizionato dai primi interventi disciplinari. In questo quarto di secolo, che vanno dai suoi primi lavori fino alla scomunica vitando del 1925 - preceduta dalla sospensioni a divinis del 1916, una condanna delle sue opere da parte del Sant’Uffizio nel 1917 e dalla "scomunica semplice" del 1921 - Buonaiuti continuò a sviluppare con metodo scientifico e storico, senza alcuna vela ideologica, le sue prime intuizioni sull’essenza del cristianesimo, sfiorando temi che soprattutto in quegli anni erano molto sensibili per il Sant’Uffizio e prima ancora per la “Civiltà cattolica” dei gesuiti, che fu la prima ad attaccare duramente il giovane prete già nel 1906.
In seguito alla scomunica vitando, che dopo l’abolizione del rogo era la pena più grave prevista dal diritto canonico (comportava l’obbligo per tutti i fedeli di evitare lo scomunicato, non partecipare alle sue conferenze, non scrivergli, e se lo scomunicato entrava in una chiesa il luogo doveva essere riconsacrato), Buonaiuti fu costretto “ad uscire ugualmente ogni mattina, nell’ora albeggiante in cui ero stato sempre solito recarmi a celebrare la messa nel vicino convento delle suore belghe, e ad andare girovagando per i sentieri della campagna circostante, perché la consuetudine della mia messa mattutina non apparisse inesplicabilmente interrotta alla premurosa e vigile attenzione di mia madre” (p. 187).
È questa un’altra pagina del Pellegrino di Roma, uno dei diari dell’anima eticamente più alti del Novecento. Per anni don Ernesto Buonaiuti continuò a vagare solitario per le campagne e strade romane solo per non addolorare sua madre che avrebbe sofferto troppo per quella scomunica. Basterebbe solo questo episodio umanissimo per dirci l’anima e la charitas di Ernesto Buonaiuti: “Il mio andare mattutino mi portava più di consueto verso i viali di Villa Borghese. Assistei così, mattina dopo mattina, all'avvicinarsi timido e quasi impercettibile della primavera. Prestati ascolto ai primi canti dei merli, destinati a divenire miei dilettissimi amici, sui rami delle querce, ancor spoglie di foglie, e sui tronchi ossuti dei tigli. E mi apparve ogni giorno più che per l'anima, la quale tenda ansiosamente l'orecchio e aguzzi intensamente la pupilla per cogliere tutte le voci e tutti gli spiragli di luce che l'azione di Dio suscita e avviva intorno al nostro pavido e tremante passo, un rito sacramentale si compie perennemente nel ciclo della vita cosmica e una possibilità di toccare le ragioni dell'altezza e della spiritualità, si dischiude sempre e dovunque. Un giorno mi parve che una luce più tersa e inondante del consueto mi avvolgesse lo spirito, consapevole come mai della sua povertà funzionale, della sua miseria radicale, del suo inguaribile impasto di fragilità e di impotenza, e mi desse lucida come mai l'intuizione di quello che è il vero intimo significato della professione cristiana nel mondo... Ora, nel momento in cui sotto il peso di un implacabile verdetto curiale mi sentivo condannato a mendicare, dinanzi al sole, apparso sulla nuova vegetazione delle piante che uscivano dal chiuso tormento dell'inverno e del gelo, quel confronto e quel viatico per la mia spiritualità quotidiana, che l'autorità inquisitoriale aveva tentato di sottrarmi, le beatitudini evangeliche mi apparivano ricche di una significazione insospettata e di una capacità di applicazioni senza confini! Che cos'è la vita dell'universo se non il poema dell'indigenza e dell'accattonaggio?!" (Pellegrino di Roma, pp. 187-189).
Dopo la scomunica definitiva Buonaiuti continuò la sua produzione scientifica che in quegli ultimi venti anni della sua vita crebbe molto. Pubblicò piccoli volumi su molte figure cristiane - san Tommaso, san Gerolamo, san Ambrogio, san Francesco, san Paolo e Gesù - per la stupenda collana “Profili” dell’editore ebreo Formiggini (con cui Buonaiuti ebbe una feconda collaborazione che continuò con l’editore Bietti dopo il suicidio di Formiggini nel 1938 in seguito alle leggi razziali).
Il governo fascista, dopo la scomunica e in vista del Concordato con la Chiesa, sospese l’attività didattica di Buonaiuti - “il Capo del governo”, gli scrisse Pietro Fedele, suo collega e Ministro della pubblica istruzione, “mi incarica di chiederti che tu interrompa il tuo insegnamento per assumere un incarico extra-accademico” (Pellegrino di Roma, p. 261). L’incarico era la cura dell’edizione delle opere di Gioacchino da Fiore, che rappresentò per il Nostro un’autentica provvidenza per l’affinità spirituale che scoprì con il monaco calabrese, il suo misticismo profetico e la sua attesa del Regno.
Il Concordato del febbraio del 1929, con un articolo (n. 5) disegnato su misura per il solo caso di Buonaiuti - nessun docente universitario sacerdote poteva insegnare senza il bene placito del Vaticano, inclusi i sacerdoti sospesi a divinis - è un altro tristissimo episodio del libro e della vita di Buoaniuti, segnò il definitivo isolamento istituzionale del Buonaiuti: “Lontano dalla cattedra, io andare ad attingere ispirazione e conforto nel Medioevo” (p. 262). Un medioevo molto diverso e opposto da quello desiderato nostalgicamente da Gemelli e da quello della nuova Università cattolica - “Medioevalismo" è il primo articolo di Gemelli nel primo numero di ‘Vita e Pensiero’. L’anno dopo il governo fascista, applicando il concordato, impedì a Buonaiuti di vestire l’abito ecclesiastico, che comunque continuò a indossare dentro casa per amore di sua madre. L’ultimo provvedimento del Sant'Uffizio (17.5.1944) fu la messa all’Indice di tutte le sue opere pubblicate.
La morte e il testamento spirituale
Nell’aprile del 1946 Buonaiuti ebbe una grave crisi cardiaca. Nel frattempo era morta sua madre Luisa nel 1941, una data che per Guerri (cap. 16) segna anche l’uscita dalla chiesa, una ‘uscita’ che non abbiamo registrato leggendo le sue opere (circa trenta) e lettere -, Muore il 20 aprile. Era sabato santo, accompagnato “dal festoso scampanio annunciante la Resurrezione” (Mario Niccoli, nota finale a Pellegrino di Roma, 1964, p. 513). E come dice A.C. Jemolo, “quanti credono in una vita futura e ricordano quel che il Buonaiuti fu… confidano ch’egli sia tra gli eletti” (Introduzione, cit., p. xxix).
Nel suo Testamento, dettato un mese prima della morte, riportato dal Niccoli, aveva scritto: “Posso aver sbagliato. Ma non trovo nella sostanza del mio insegnamento materia a sconfessione o a ritrattazione. E in questa consapevolezza tranquilla, affronto il mistero incombente. A tutti coloro - e sono purtroppo legioni - che hanno ostacolato, non rifuggendo da complicità innaturali, lo spiegamento della mia attività pubblica - perdono” (p. 512). Non servono altri commenti.
Buonaiuti morì scomunicato. Il cardinal Francesco Marmaggi giunse al suo capezzale di Buonaiuti, “dichiarò di essere autorizzato ad amministrargli i sacramenti purché prima sottoscrivesse la seguente formula (Buonaiuti me la riferì a memoria): ‘Credo tutto quello che crede e insegna la Santa Chiesa Cattolica, e riprovo tutto ciò che essa riprova’. Buonaiuti non sottoscrisse. Con me - e fu l’ultima volta che io lo vedi vivo - disse che avrebbe potuto sottoscrivere la prima parte della formula, non la seconda, perché troppe cose la Chiesa aveva condannato che egli non poteva condannare” (Niccoli, cit., p. 512).
Ma forse il suo testamento più poetico sono le sue ultime sette pagine della sua monumentale Storia del Cristianesimo, la cui messa all’Indice fu l’ennesimo dolore profondo. In quel trattato dove il Buonaiuti aveva raccolto in quasi duemila pagine l’essenziale di oltre quarant’anni di ricerca, quando arrivò alla conclusione la prosa divenne poesia e preghiera. Non conosco una conclusione di libro più commovente e profonda: “Noi ti invochiamo, innanzitutto, o Padre… Accattoni noi siamo tutti indistintamente: tanto più accattoni e tanto più miserabili, quanto più famelici ci fanno la nostra cultura e il nostro dominio sul mondo. Noi torniamo pertanto a te… Affretta il tuo trionfo perché la nostra vita si è consumata nel desiderio della Tua giustizia… Sappiamo che tu ci attendevi al nostro ritorno: il ritorno di accattoni che sanno per dura esperienza che nulla è più funesto dell’uomo nella sua orgogliosa pretesa alla sufficienza e all’autogoverno. Raccoglici nella pace e nel Tuo perdono e della Tua grazia e che i nostri occhi non dimentichino più la legge eterna del Tuo vangelo che è tutta nel segno di una croce, proiettata su tutta la sconfinata sofferenza e su tutta sitibonda speranza dell’universo: o crux, ave spes unica!” (pp. 769-774).