venerdì 2 aprile 2021
In “Diario di un amore perduto” lo scrittore alsaziano affronta il dolore per la perdita della madre, i cui ricordi «non impoveriscono il libro della mia esistenza, vi aggiungono paragrafi»
Lo scrittore Eric-Emmanuel Schmitt

Lo scrittore Eric-Emmanuel Schmitt - Boato

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Cosa significa la morte di una persona cara? In particolare di quella donna che ci ha dato la vita, la propria madre? Un’esperienza comune a tanti ma che per ciascuno diventa esperienza singolare di dolore e, talvolta, di rappacificazione con l’esistenza. In un nuovo libro, molto intimo, lo scrittore francese Eric- Emmanuel Schmitt indaga, con la finezza psicologica che gli è propria e un ricorso frequente all’aforisma (altra pratica che il narratore alsaziano sperimenta spesso), il dipanarsi di sentimenti che la morte di Jeannine Trolliet, la signora Schmitt, sua madre, ha suscitato in lui. In questa analisi del proprio lutto Schmitt ci fa partecipi di quella fede cristiana che l’ha toccato come grazia nel deserto d’Algeria all’età di trent’anni.

Una fede che diventa anche oggetto di scontro e dialettica con il padre il quale un brutto giorno resta paralizzato (e per 18 anni sarà accudito dalla moglie): «Siamo tornati alle discussioni metafisiche o teologiche del passato in cui parlavamo di Dio e di Cristo, tutte cose in cui lui non credeva e alle quali io, dopo il viaggio nel Sahara, avevo aderito ». Una fede che anche nel momento del doloroso distacco dalla madre diventa un punto d’appoggio cui sostenersi. Diario di un amore perduto (e/o, pagine 186, euro 17,00), la nuova prova narrativa di Schmitt, lo si può leggere seguendo questi due registri: le confidenze di un figlio rispetto alla dipartita della madre; le confessioni di un credente inquieto di fronte al mistero della morte. Partiamo dalla seconda. L’autore ammette di ricorrere alla preghiera per la madre morta: «Più volte al giorno prego per lei. Prego perché nel regno in cui sta approdando non vada nel panico. Prego perché vi si aggiri contenta, perché venga ben ricevuta». E chiosa: «Credo nel potere del credere». E, facendo eco al suo romanzo più “religioso” – Il vangelo secondo Pilato – Schmitt scrive: «Ho la fede. Niente nelle mie convinzioni mi ragguaglia sull’aldilà, semplicemente coltivo la fiducia. Fiducia nel mistero che ci fa esistere. Fiducia nella vita. Fiducia nella morte. La vita è stata una bella sorpresa, la morte sarà una bella sorpresa. Di che genere? Non ne ho idea!».

Attenzione, però. Non è che il credere in Dio ingeneri in Schmitt un afflosciamento del dolore. In un dialogo con un amico, credente, se ne ha la riprova: «Didier Decoin, credente come me, mi domanda: “La fede ti aiuta a superare il dolore di aver perso tua madre?”. “Per niente”. “Neanche a me”». Chiosa l’autore: «La fede non è un sapere, ma un modo di abitare l’ignoranza ». Un modo che ha molto a che fare con la speranza e la gratitudine: quando, due anni dopo la morte della madre, si reca al cimitero della sua Lione per rendere omaggio ai genitori defunti, Schmitt confida: «Le mie lacrime si definiscono… Raccontano la tristezza di aver perso due esseri cari e la felicità di esistere pensando a ciò che mi hanno dato. Malinconia e gratitudine si mischiano». L’incontro con la morte smuove Schmitt anche nel descrivere i sentimenti che tale evento generano nell’animo di un artista come lui: «Una morte improvvisa è un miele per chi se ne va e un veleno per chi resta. Mentre risparmia il calvario alla persona colpita, lascia i suoi familiari scioccati, incerti, sbigottiti, intorpiditi».

L’autore si sente debitore di chi l’ha preceduto: la passione per il teatro, per la letteratura, per la bellezza è da ascrivere a Jeannine, di professione velocista in pista (detentrice di un record nazionale francese che ha resistito per vent’anni): «Da te ho ereditato la passione di esistere, il desiderio di ammirare, l’ebrezza di intraprendere». Cosa diventa dunque la vita per un figlio che ha coltivato un forte rapporto con la madre e che ne resta priva? Una vita “senza”, ma anche una vita più “piena”: «Imparare. Accettare. Imparare ad andare avanti senza di lei, a viaggiare senza di lei, a scrivere libri che lei non leggerà, a creare spettacoli che non vedrà, a ricevere premi senza correre subito da lei. Accettare di non vivere più due volte come prima, una per me e una per lei attraverso i miei racconti. Abituarsi alla sua assenza. Sempre. E per sempre». La morte di una persona cara, come la propria madre, diventa per Schmitt sorgente di nuova memoria (un amore “memorioso” lo chiamerebbe Francesco) quando afferma: «Finalmente ho trovato il posto giusto che nella mia vita ha il ricordo: arricchisce la realtà senza appannarla. Non solo non la annichilisce, ma la rende corposa. I ricordi di mia madre non impoveriscono il libro della mia esistenza, vi aggiungono paragrafi».

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