Enzo Scaini con la maglia del Vicenza, stagione 1982-83
Da queste pagine sono circa vent’anni che portiamo avanti una battaglia, a tratti donchisciottesca, per far luce su quelle che per primi abbiamo ribattezzato le “Morti bianche” del pallone italiano. In cima alla lista delle vittime acclarate del nostro calcio c’è il caso apicale di Bruno Beatrice, una vita da mediano alla Fiorentina e al Cesena in Serie A, negli anni ’70, morto di leucemia che aveva appena 39 anni. La sua famiglia attende una risposta dal lontano 16 dicembre 1987, il giorno della morte causata (secondo accurata perizia medico-scientifica) da un ciclo scellerato di raggi Roentgen al quale venne sottoposto nella stagione in viola 1975-76.
Quella di Bruno Beatrice, è una delle decine di “morti bianche” che sono state inserite nel primo libro dossier sull’argomento Palla avvelenata (Bradipolibri, prima edizione nel 2003, di Massimiliano Castellani e Fabrizio Calzia) nel quale si denunciavano i “decessi precoci”, oltre che misteriosi, di calciatori per un’incidenza nettamente superiore - rispetto alla media universale - di leucemie e tumori (in particolare cancro al fegato e al pancreas). Sempre in quella pubblicazione si paventava lo spettro del “Morbo del Pallone”. Ovvero, la sequela impressionante di casi e vittime della Sla (Sclerosi laterale amiotrofica), circa 60 casi registrati dagli anni ’70 a oggi, su una popolazione di circa 41mila calciatori con un’esposizione della categoria 25-30 volte superiore. Cifre che indicano uno scenario apocalittico sul quale si è sempre poco indagato e molto taciuto.
«Il mondo del calcio è il più omertoso che abbia mai conosciuto», disse il giudice Raffaele Guariniello, che è andato a fondo ai misteri del pallone, finché ha potuto, entrando negli spogliatoi o sarebbe meglio dire nelle corsie del “calcio malato”. Dopo il caos e l’epidemia di nandrolone del 2000, con una dozzina di calciatori di Serie A trovati positivi a quella sostanza (tra loro anche Pep Guardiola, allora al Brescia) e il Processo per doping alla Juventus (assolta per prescrizione, i tanti farmaci usati non erano ancora inseriti nella lista dell’antidoping) nell’ultimo decennio si è passati a uno stato di apparente normalità.
Peccato però che, ogni tanto le coscienze assopite dall’endemica omertà pallonara vengano risvegliate da qualche memoria di cuoio che si impegna per far riaffiorare dall’oblio casi irrisolti e morti dimenticate, come quella di Enzo Scaini. Un nome quello del possente centrocampista, il n.10 del Vicenza che non era sfuggito al nostro storico dossier, e la cui vicenda ora viene riproposta e approfondita da un libro-inchiesta dei giornalisti Giampiero De Andreis e Emanuele Gatto: Non ero Paolo Rossi (Edizioni Eraclea, pagine 130, euro 12,50). Un titolo che nasce da una frase spontanea pronunciata dall’avvocato Sergio Campana alla vedova di Scaini, la signora Rossella Biancini che si rivolse al sindacato dei calciatori e l’allora presidente dell’Aic gli rispose amaro: «Purtroppo suo marito non era Paolo Rossi». Tradotto: la sua tragica fine avrebbe avuto un altro impatto mediatico se si fosse trattato del “Pablito Mundial”.
Rossella è una delle tante vedove del pallone che pretendeva la verità sulla morte assurda di un ragazzo di 27 anni, avvenuta il 21 gennaio 1983. Gente sana e umile gli Scaini, razza contadina friulana, di Gradiscutta di Varmo che quando andarono lì quelli del Torino e chiesero al padre di firmare il contratto per «vendergli il suo Enzo di 14 anni», il buonuomo rispose: «Io vendo i vitelli non i figli», ci raccontò la signora Biancini.
La bella di Lodi, l’amore unico di Enzo, quella ragazza conosciuta quando giocava nel Sant’Angelo (serie C). Rossella, la mamma dei loro due figli: Eva e Thomas che quando il loro papà è morto avevano rispettivamente 5 e 2 anni. Una famiglia felice che l’aveva seguito nelle tappe di una carriera in ascesa: da Monza fino a Campobasso. Prime soste di un cammino che lo avrebbe portato all’Hellas Verona e poi nel Perugia di Gustavo Giagnoni in cui subì il primo stop per infortunio al ginocchio, proprio mentre gli umbri lottavano per la promozione in Serie A.
«Enzo era sempre stato bene fino a quel momento. Una volta però mi disse: mi fanno delle flebo per rimettermi in forma, ma non lo so mica cosa ci mettono... Poi ci fu un episodio strano: una sera si parlava in salotto, quando ad un tratto ebbe un blocco, non riusciva più a muovere il bacino», ricorda Rossella che non avrebbe mai immaginato un epilogo così imminente.
La stagione successiva, 1982-’83, Scaini riparte da Vicenza in C, ma in una gara contro il Trento il ginocchio fa crac. Ricoverato a Roma alla Clinica Villa Bianca dove il professor Lamberto Perugia, un luminare, lo operò per la ricostruzione del legamento crociato anteriore al ginocchio sinistro. «Gli fecero un’anestesia da cavallo. L’operazione sembrava essere riuscita perfettamente e quando lo riportarono nella sua stanza teneva le mani poggiate dietro la nuca e la flebo attaccata... Ad un certo punto lo vidi sbiancare in volto e perdere i sensi. Allora mi misi ad urlare e a chiedere aiuto. L’infermiera entrò di corsa in camera e gli diede due schiaffi per rianimarlo, poi scappò a chiamare un medico. Io a quel punto non ho capito più niente. Mi sono risvegliata in un lettino tramortita dai sedativi che mi dicevano: “Signora è successa una disgrazia, ma non sappiamo il perché”».
Il giorno in cui Rio de Janeiro piangeva il grande “Manè” Garrincha, fu anche quello della fine di Scaini. «Allora avevo undici anni e ricordo perfettamente che durante un trasloco mi capitò tra le mani una pagina di giornale che raccontava il dramma, appena accaduto, di Scaini. Quell’immagine del giovane calciatore, dal grande fisico, non mi ha più abbandonato. E così cinque anni fa con De Andreis abbiamo cominciato a fare interviste, ricerche alla Procura di Roma che hanno portato a questa inchiesta», spiega Gatto che con De Andreis hanno dovuto dribblare i silenzi e le ombre calate su questa storia e su un processo archiviato in fretta e furia già nel 1988.
Dalla loro inchiesta si arriva al “mistero dell’anestesia”: a Scaini era stata iniettata una forte dose di droperidolo (sostanza ritenuta nociva e messa fuori commercio nel 2001) che può aver causato il decesso. Tutte le persone indagate nel processo, medici e infermieri, come si legge nel documentatissimo Non ero Paolo Rossi sono stati assolti. Rossella con due bambini piccoli e ingannata dalle assicurazioni che dovevano garantirgli un risarcimento adeguato per la morte del marito si è dovuta rimboccare le maniche e non ha potuto «lottare come invece vedo fare oggi a quelle mogli e madri che hanno avuto un’esperienza simile alla mia». È il rimpianto di una vedova al quale il calcio ha strappato troppo presto l’uomo della sua vita.
«Maledizione al calcio, non ne voglio più sapere», disse il suo ex compagno di squadra nel Perugia Ezio Cavagnetto all’indomani della perdita dell’amico “Scaio”. Cavagnetto è uno di quelli che non l’hanno mai dimenticato. Così come non può averlo scordato Roberto Baggio, l’allora 16enne che in quella stagione debuttò all’ultima giornata, idealmente con la maglia numero 10 del Vicenza che era stata di Scaini.
E Roberto Morelli, non ha mai smesso di difendere la memoria dello «zio Enzo». A Crema, con il supporto dei frati dell’oratorio dei Sabbioni, ha fondato la Scuola Calcio Enzo Scaini («Tutti gli anni passano da noi 50-60 bimbi») che è legata all’associazione benefica “Io non crollo”, creata per portare soccorso alle popolazioni colpite dal terremoto. Il nome di “Scaio” è arrivato anche tra i bambini della tendopoli di Norcia. La città di Flavio Falzetti, un ragazzo che denunciò «strane pratiche mediche», un’altra morte dimenticata del pallone (avvenuta nel 2013, a 40 anni, aveva giocato in serie C), perché non era Paolo Rossi, né Roby Baggio e neppure Scaini.