domenica 29 ottobre 2017
I 500 anni della pubblicazione da parte di Lutero delle Tesi di Wittenberg offrono lo spunto per riflettere su una parola che implica rinnovamento e fedeltà
Il monumento a Martin Lutero, a Dresda

Il monumento a Martin Lutero, a Dresda

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Nella nostra lettura della storia abbiamo sempre bisogno che ogni “svolta epocale” sia contrassegnata da una data, un luogo e un evento precisi e – qualora questi non siano sufficientemente definiti o significativi, li si colora di enfasi e di risvolti non sempre verificabili. Così il lento processo che conduce a una realtà non immaginabile fino a poco tempo prima si cristallizza in un punto preciso della storia fino a fargli assumere connotazioni leggendarie. È avvenuto così per la riforma protestante. È ormai opinione prevalente tra gli storici che l’immagine così nitida del monaco agostiniano Martino Lutero – che il mattino del 31 ottobre 1517 affigge sul portone della chiesa del castello di Wittenberg un foglio contenente 95 tesi – sia con ogni probabilità un evento mai avvenuto nelle modalità che l’iconografia classica ha descritto per secoli.

Eppure oggi, a cinquecento anni esatti da quel giorno, ci ritroviamo giustamente a fare memoria di tutto ciò che quell’immagine racchiude: un profondo, sofferto desiderio di riforma evangelica dell’unica Chiesa di Dio. In verità la Chiesa ha sempre sentito nei suoi membri il bisogno, l’anelito alla conversione, alla riforma; ma se nel primo millennio questa “riforma” ha un significato essenzialmente individuale e spirituale di conversione interiore, nel secondo millennio è stata invocata quale rinnovamento della chiesa, della sua forma istituzionale, quale ritorno alla primitiva forma ecclesiae: un atto di obbedienza allo Spirito e a “ciò che lo Spirito dice alla Chiesa”.

Ma cosa può indicare il termine “riforma”, reformatio? Nel cristianesimo, che è ricezione della rivelazione, viene data una forma canonica, più che esemplare: la forma Evangelii, la forma della vita Jesu, la forma ecclesiae. Dunque la riforma è azione per riportare alla forma canonica ciò che con il passare del tempo è stato oscurato, ferito o addirittura perduto: è azione di conversione, di ritorno. Innanzitutto questo movimento deve essere incessante, “finché verrà il Signore”: proprio in attesa di quel giorno della parusia, la Chiesa, la sposa, deve farsi bella per il suo sposo (cf. Ap 21,2), deve riformarsi per essere secondo la forma nella quale lo Sposo attende. In questo senso la riforma della Chiesa è epiclesi della parusia.

Ma il termine “riforma”, soprattutto nel secondo millennio in occidente, ha avuto il significato di ritorno alla primitiva forma perduta o molto contraddetta. La tradizione cristiana ha sempre guardato ai sommari degli Atti degli apostoli (At 2,42-45; 4,32-35; 5,12-16), nei quali viene presentata la chiesa nata dalla Pentecoste, come descrizione della Chiesa voluta dal Signore e plasmata dallo Spirito Santo, dunque come sua forma canonica in ogni tempo nella storia. La descrizione della comunità primitiva ha ispirato costantemente la vita cristiana, anche se occorre sempre ribadire che solo il Signore Gesù può riformare la Chiesa, così come solo Dio può fare il dono della conversione, come affermava sant’Agostino: «Proprio colui che ti ha formato sarà anche il tuo riformatore».

Sì, la Chiesa, in quanto istituzione umana, in quanto organismo nella storia, deve essere riformata e purificata, per essere conforme alla volontà del suo Signore. Solo una sordità istituzionale a istanze di riforma presenti nella Chiesa d’occidente fin dagli inizi del secondo millennio, condurrà la volontà riformatrice di Lutero agli esiti laceranti che abbiamo conosciuto: la riforma tanto desiderata, a causa del suo ritardo diverrà così scisma, rottura, irreparabile divisione della Chiesa cattolica. Dopo gli eventi della Riforma protestante vi sarà di fatto una Riforma cattolica (a lungo definita Controriforma) dovuta al concilio di Trento e soprattutto ai santi riformatori e alle loro fondazioni religiose.

Tuttavia la parola “riforma” non godrà di buona fama nella Chiesa cattolica dopo il grande scisma del XVI secolo, definito ancora nel 1937 dal Dictionnaire de théologie catholique «la rivoluzione protestante». Presente al cuore del secolo scorso quale titolo di un libro decisivo di Yves Congar – Vera e falsa riforma della Chiesa – il termine “riforma” ricorre solo due volte nei documenti conciliari ed entrambe le volte nel decreto sull’unità dei cristiani, Unitatis redintegratio. Vi è una tale diffidenza verso questo termine, che il testo ufficiale latino dell’enciclica Ecclesiam suam di Paolo VI (1964) traduce il vocabolo italiano “riforma” presente nel manoscritto del papa con il più neutro renovatio.

A partire dal Vaticano II il termine “riforma” è stato comunque reintrodotto nel dibattito ecclesiale cattolico, anche se appare raramente nei testi del magistero papale. Il suo uso con papa Francesco è diventato più frequente, quasi un termine programmatico del suo pontificato: riforma, potremmo dire con il concilio di Costanza (1414-1418), «in fide et in moribus, in capite et in membris», cioè riforma di tutta la Chiesa, dal papato a ogni battezzato. Così il cammino di rilettura della riforma protestante compiuto in questo anno commemorativo ha assunto una forte valenza ecumenica e di riconciliazione, aiutando le Chiese a passare “dal conflitto alla comunione”.

Stiamo forse assistendo a quanto auspica, ormai ultracentenario, il teologo gesuita francese Joseph Moingt nel libro che raccoglie i suoi scritti dedicati all’urgente riforma della Chiesa? Il titolo ben riassume l’anelito di ogni riformatore e di ogni istanza riformatrice: Il Vangelo salverà la Chiesa. Sì, attraverso la sua obbedienza al Vangelo, al suo tentare ogni giorno la riforma, la Chiesa attenderà la parusia con maggiore fedeltà al Signore, per essere la sposa bella, pronta per il suo Sposo, Gesù Cristo il Signore.

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