Educare si può, senza se e senza ma. E quindi educare si deve. Al titolo del libro del sociologo Franco Garelli ( Educazione, Il Mulino, pagine 157, euro 12) potremmo mettere un punto esclamativo. È un pamphlet, ossia l’opera di un tifoso che non nasconde la sua passione per questa 'Parola controtempo', dal nome della collana in cui è inserito il libro. Ma è anche lo studio di un navigato sociologo tutt’altro che ingenuo, che corrobora la sua passione (educatore è lui per primo e da una vita) con una logica stringente. Garelli non nasconde il suo fastidio: «Provo una forte allergia nei confronti del pessimismo cosmico che da tempo sta condizionando il nostro Paese», e domanda provocatoriamente: «Perché non si è prodotto un moto di ribellione (o di indignazione) collettiva verso queste analisi estremamente riduttive della situazione educativa del Paese», molto ingenerose nei confronti di chi invece sull’educazione scommette la propria vita e si impegna senza parsimonia.
Le parole associate a “educazione” sono di solito negative: crisi, emergenza, rischio, impasse, smarrimento... Garelli preferisce sfida. Non si crogiola nel rimpianto di un passato in cui l’educazione poggiava su solidi punti di riferimento e valori, e famiglia, scuola, chiese e associazioni agivano in armonia; anche perché quella pretesa “epoca d’oro” non era esente da limiti, a cominciare dall’autoritarismo e dall’indottrinamento. Oggi, però, u- na cappa di stereotipi negativi avvolge i giovani, racchiusa in espressioni come «generazione nichilista », «deserto di senso» e simili. Garelli i giovani li incontra tutti i giorni nella sua aula universitaria a Torino, nelle scuole, nelle ricerche condotte su di loro. E conclude: «L’insieme dei giovani è meglio di come essi vengono perlopiù pubblicamente rappresentati».
Le immagini fornite (innanzitutto dai media) sono appiattite su facili equazioni: giovani uguale disagio, bullismo, nichilismo... Non tengono conto della varietà. Certo, il contesto in cui stanno crescendo i millennials è cambiato, nel segno di autosufficienza, libertà e autonomia. Di stimoli sproporzionati. Della consapevolezza della precarietà, che può indurre alcuni, forse molti, a un «piccolo cabotaggio della vita». Di un diverso stile di socializzazione. Di appartenenze molteplici. «Dentro il sistema, ma con il cuore altrove», con l’effetto di dare maggiore spazio a emozioni e sentimenti, e meno a ideali e progetti. Eppure giovani forti di conquiste consolidate, come un rapporto di coppia paritario. Garelli passa in rassegna alcune agenzie educative come la famiglia e la scuola. Famiglie indaffaratissime, che finiscono per offrire più 'cura' che educazione. Nega che si possa parlare sbrigativamente di «eclissi dei padri». Semmai c’è un attivismo in parte disordinato, nel «difficile passaggio da un modello autoritario a uno persuasivo, dalla cultura dell’imposizione a quella dell’autorevolezza».
«Un conto – scrive Garelli, parlando del “prendersi cura” – è cercare di offrire ai figli risorse utili grazie alle quali essi possano crescere e maturare in modo autonomo le proprie scelte. Altro conto è riempirli di attenzioni e di preoccupazioni lasciando che sia l’esperienza a formali, ritenendo troppo invadente o impegnativo o anacronistico fornir loro una prospettiva di vita nella società plurale». E la scuola, l’altra 'agenzia educativa'? Sarà davvero, come talvolta le viene rimproverato, «responsabile di tutto»? Di sicuro appare attraversata da 'anime' e progetti contrastanti. Ma davvero gli studenti sono quei 'pappamolle' che troppi media amano mettere alla berlina? Garelli, manco a dirlo, scuote il capo e cita un libro americano mai tradotto in Italia (forse non a caso, visto che complica le letture piatte tanto in voga in Italia), America’s Teenagers. Motivated but Directionless, frutto del lavoro di un gruppo di ricerca di Chicago, The Ambitious Generation.
Motivati ma in cerca di una direzione: difficile da noi, commenta Garelli, pensare in questo modo ai giovani: «Da noi si mette molto l’accento sui problemi più che sugli stimoli, con il rischio di 'disagiare' la condizione giovanile nel suo complesso». Ma proprio qui, sembra di capire, attorno al «motivare e orientare» sta il cuore dell’educazione. I giovani – è la convinzione di Garelli – non sono insensibili al fascino dell’educazione e gli adulti impegnati in ruoli formativi hanno una grande responsabilità nell’orientare e motivare le nuove generazioni. Ci può essere una vera conclusione, che “chiuda” il discorso, attorno all’educazione, se è un processo continuamente in atto? No. Ma alcune certezze Garelli le confida. Come questa: «Sono del tutto convinto che il segreto di una buona educazione risieda più in quello che non si dice che in quello che si rende manifesto». Più che affastellar parole, meglio puntare a fatti, presenze, attenzioni. Per dire ai giovani: ci state a cuore, meritate il nostro sguardo, siete per noi persone preziose.