sabato 3 febbraio 2024
Nel saggio “L’etica nei conflitti della modernità”, il teorico del comunitarismo riflette in profondità sulla domanda: cosa significa condurre una vita buona?
Il filosofo Alasdair MacIntyre

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Il primo passaggio riguarda l’identificazione di un insieme di beni il cui contributo a una vita buona, quale che sia la cultura o l’ordine sociale di ognuno, parrebbe difficile da negare. Questi sono almeno otto, partendo da una buona salute e un buon tenore di vita – del cibo, dei vestiti, una casa – che liberano dalla miseria. Si aggiungano a questi delle buone relazioni famigliari, una sufficiente istruzione che consenta di far buon uso delle opportunità di sviluppare le proprie capacità, un lavoro che sia proficuo e remunerativo e buoni amici. E inoltre del tempo al di fuori del proprio lavoro dedicato ad attività buone in sé stesse – sportive, estetiche, intellettuali, e la capacità, propria di un agente razionale, di dare un ordine alla propria vita e di individuare i propri errori imparando da essi.

Molte vite sono eccellenti nonostante la mancanza di uno o più beni fra questi. Ma quanto più sono assenti beni fra quelli elencati, tanto più un agente dovrà essere capace di far fronte alle difficoltà che la loro assenza causa. Una tale capacità comprende l’abilità di riconoscere che cosa si dovrebbe cambiare e che cosa potrebbe essere cambiato di sé stessi nell’ordine sociale e istituzionale in cui l’agente è inserito per poter raggiungere i beni costitutivi della vita buona e goderne.

È certamente vero (…) che si devono spesso fare delle scelte dolorose fra beni, sia come individui sia come famiglie o come comunità politiche. Potrebbe darsi che io sia un atleta di successo o un abile ricercatore in medicina, ma non entrambi; un buon marito e padre o un buon soldato, ma non entrambi. Potrebbe darsi che la mia comunità offra una buona istruzione pre-scolastica o un buon teatro, ma non entrambi; migliori servizi di trasporto o miglior assistenza per gli anziani, ma non entrambi.

Tuttavia ciò che conta per una vita buona non è tanto quale scelta viene fatta, quanto piuttosto il modo in cui tali scelte vengono effettuate, la natura e la qualità della deliberazione che le compie. È attraverso la propria educazione iniziale come agenti pratico-razionali e il successivo esercizio delle loro capacità di ragionamento nel fare tali scelte che gli agenti svolgono il loro ruolo nel determinare la bontà delle proprie vite. Non vi è dubbio che la natura delle alternative con cui si confrontano cambia da cultura a cultura e da ordine sociale a ordine sociale e varia anche a seconda del posto occupato dall’agente nel suo ordine sociale.

Le strutture famigliari, i tipi di lavoro produttivo, la distribuzione dell’autorità e del potere prendono diverse forme. Nondimeno non vi è che un solo e medesimo bisogno, quello di essere in grado di giudicare quale tipo di contributo al raggiungimento dei beni individuali e comuni di un agente potrà apportare ciascun corso d’azione alternativo. Pertanto, possiamo abbozzare un resoconto della forma che qualsiasi vita buona per gli esseri umani deve assumere, un resoconto rispetto al quale vi è in effetti un sorprendente accordo di massima. Come avviene con i beni, così avviene anche con le mancanze, con i fallimenti e con i mali.

Circa i vari modi in cui le vite possono fallire vi è una volta ancora un ampio accordo. Una morte prematura e una malattia invalidante, una povertà opprimente e la mancanza di amicizia dell’escluso e del perseguitato possono escludere la possibilità di una vita buona. Circostanze un po’ meno difficili potrebbero costituire ostacoli e frustrazioni che possono essere superati con quel tipo d’intraprendenza che abbiamo già visto essere un costitutivo essenziale di molte vite buone.

La mancanza di una tale intraprendenza potrebbe essere il risultato del non essere riusciti a impararla o del non aver voluto rischiare quando era necessario. Se continuiamo a elencare le qualità della mente e del carattere che consentono agli agenti di confrontarsi, di superare e di imparare dalle avversità, scopriremo di aver elaborato una lista di virtù necessarie a una vita buona in molti tipi di situazioni sulla quale vi è un ampio margine di accordo. Ma le virtù sono necessarie anche per altri motivi. Noi tendiamo a sbagliare (…) perché troppo inclini a essere sedotti dal piacere, dall’ambizione politica e dall’amore del denaro. La vita buona può essere descritta nei termini dell’esercizio della capacità di fare buone scelte fra i beni e le virtù richieste sia per superare e andare oltre le avversità, sia per dare il dovuto spazio (e non più di questo) nelle nostre vite al piacere, all’esercizio del potere e al guadagno di denaro.

(estratto da Alasdair MacIntyre, “L’etica nei conflitti della modernità”, Mimesis © 2024 - MIM edizioni srl)

Gli elementi essenziali al vivere che chiamano all’intraprendenza

Simone Paliaga

«La retorica seduttrice della pubblicità e gli inganni del marketing divengono strumenti necessari per l’espansione capitalista; sono strumenti che formano e suscitano desideri di oggetti che gli agenti, in quanto agenti razionali direzionati verso i fini della fioritura umana, non hanno alcuna buona ragione di desiderare. Perciò quegli agenti che veramente desiderano gli oggetti che hanno buone ragioni di desiderare si trovano periodicamente in contrasto con l’ethos delle società capitaliste più sviluppate e in conflitto con coloro i cui valori coincidono coi valori dominanti di queste società», scrive Alasdair MacIntyre in L’etica nei conflitti della modernità. Desideri, ragionamento pratico e narrative, un testo uscito originariamente nel 2016 e ora pubblicato in traduzione italiana dalle edizioni Mimesis con la curatela di Sante Maletta, Dario Mazzola e Damiano Simoncelli (pagine 446, euro 28,00).

Conosciuto prevalentemente per Dopo la virtù, MacIntyre, classe 1929, è uno dei maggiori pensatori viventi e uno dei principali teorici contemporanei dell’etica delle virtù e del comunitarismo, malgrado egli provi a sottrarsi a entrambe le etichette. Ben lungi dal mainstream culturale dominante, anche nel presente lavoro non rinuncia alla critica delle impasse della modernità e della società di mercato, richiamandosi a Aristotele e san Tommaso d’Aquino. Cosa significa condurre una vita buona? È la questione che sta al cuore della riflessione di MacIntyre, benché non vada intesa, come testimonia la citazione iniziale, come un esercizio accademico né una semplice questione morale.

Condurre una vita buona equivale, per il pensatore scozzese, a toccare in profondità quanto rende possibile la fioritura dell’uomo vale a dire ciò che consente all’uomo di essere pienamente tale. Nel riflettere sui propri desideri, chiedendosi se ci sono buone ragioni per desiderare ciò che si desidera, c’è in gioco la vita degli esseri umani. E due sarebbero, a grandi linee, le risposte possibili.

Per gli espressivisti (che precedentemente MacIntyre chiamava emotivisti) la bontà della scelta del desiderio da seguire riguarda l’atteggiamento che si assume verso un oggetto, e non la qualità dell’oggetto stesso. Viceversa gli “aristotelici” esiste uno standard oggettivo che qualifica cosa significhi fiorire per gli esseri umani. E non riuscire a fiorire conformemente a questo standard equivale a non realizzare quanto sarebbe conforme a una vita umana. Il capofila dei primi è David Hume, la cui teoria morale e politica ha avuto «l’effetto ingannevole di nascondere ai suoi lettori – precisa MacIntyre – l’importanza di certi fatti relativi alla condizione del loro ordine sociale ed economico ». Egli propone di considerare “buono” ciò che è desiderato individualmente, e lungo questa traiettoria, si arriva a considerare buono ciò che dà piacere.

«Nell’originaria versione dell’utilitarismo – precisa l’autore comunitarista – la massimizzazione dell’utilità indicava la massimizzazione del piacere e la minimizzazione del dolore. Più recentemente la massimizzazione dell’utilità è venuta a indicare la massimizzazione della soddisfazione delle preferenze. Nessuna delle due formulazioni mostra attenzione al fatto che ciò che procura piacere a ognuno di noi e ciò che ognuno di noi preferisce dipende in gran parte dalla nostra precedente formazione morale. Proporre la massimizzazione dell’utilità in quanto tale come la misura dell’azione giusta deve perciò venire considerato un errore», perché comporta delle conseguenze che non si fermano al piano individuale.

Insieme al suo amico Adam Smith, Hume è tra i primi a trasformare l’inesauribile bramosia da vizio, vituperato da pensatori antichi e medievali, in virtù cardine del nascente capitalismo. Ciò che manca a questa prospettiva «è una concezione dell’attività economica – sottolinea il pensatore scozzese – che sia diretta in modo cooperativo e intenzionale verso la realizzazione dei beni comuni, compresi come Aristotele e Tommaso li hanno intesi, e inoltre il pensiero che è solo nella realizzazione di tali beni e attraverso essa che gli individui sono in grado di realizzare i loro beni individuali». Questa rivoluzione trova una ricaduta negli attuali stili di vita della moderna società di mercato che ha generato molta ricchezza economica e sovrabbondanza culturale ma anche numerose disuguaglianze.

«È spesso questa ricchezza culturale della modernità capitalistica – ammonisce MacIntyre – ad abbagliare i suoi massimi ammiratori, accecandoli rispetto ai suoi limiti e orrori, tra i quali hanno un rilievo preminente le strutture della disuguaglianza nazionale e globale che condannano così tanti alla povertà, alla fame e all’esclusione dalle ricchezze culturali della modernità. Ma anche coloro che non sono così condannati ed esclusi soffrono a loro volta di una certa forma di deprivazione, della quale sono egualmente di solito inconsapevoli. Essi sono educati inadeguatamente sul modo di fare delle scelte».

Infatti il capitalismo, grazie al supporto della tecnologia, sviluppando capacità e potenza produttiva, ha elevato i livelli di vita ma ha pure prodotto «la distruzione o marginalizzazione delle forme tradizionali di vita creando grosse e talvolta grottesche diseguaglianze di reddito e benessere, attraverso crisi dopo crisi, la creazione ricorrente di una disoccupazione di massa, lasciando quelle aree e quelle comunità che non era conveniente far sviluppare impoverite e deprivate in modo permanente».

Nessuna propensione nostalgica in queste parole. La partecipazione alla vita comunitaria, si tratti della famiglia, della società politica, del lavoro, dei gruppi sportivi, delle orchestre e delle compagnie teatrali, permette l’individuazione dei beni comuni da perseguire, beni che si possono godere in quanto membri di un gruppo ma che consentono anche la fruizione di beni individuali. Ciò che caratterizza le forme locali di comunità è la possibilità di oltrepassare l’attitudine individuale incentrata su un’attitudine del singolo per procedere verso a una «deliberazione condivisa, regolata da criteri indipendenti dai desideri e interessi di coloro che vi prendono parte».

Solo così è possibile promuovere «l’abilità di riconoscere – per usare le parole di MacIntyre – che cosa si dovrebbe cambiare e che cosa potrebbe essere cambiato di sé stessi nell’ordine sociale e istituzionale in cui l’agente è inserito per poter raggiungere i beni costitutivi della vita buona e goderne».



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