Il monumento a Manzoni a Milano - WikiCommons
Sulle prime la scelta lascia perplessi, ma basta poco per rendersi conto che è davvero la più opportuna. Fatta salva la lunga introduzione dello storico Adriano Prosperi, la Storia della Colonna Infame entra infatti nel catalogo della “Nuova Universale” Einaudi priva di apparati, note, indicazioni bibliografiche (pagine LXXVIII+134, euro 21,00). È la versione predisposta da Alessandro Manzoni per l’edizione definitiva dei Promessi Sposi, la cosiddetta Quarantana, dove la parola “fine” si trova appunto al termine della Colonna Infame. Non si tratta di un esito scontato, perché lo stesso Manzoni è stato a lungo indeciso sulla collocazione di questo scritto concepito inizialmente come parte integrante del romanzo e poi isolato in una “appendice” che, con la risistemazione del 1840, assume infine la sua dinamica autonomia. Il romanzo è il romanzo, non si discute. Ma se non si legge la Storia della Colonna Infame non si può dire di aver letto veramente I Promessi Sposi, come ama ripetere l’italianista Ermanno Paccagnini, che nel 2002 ha stabilito per Mondadori il testo ora riprodotto nel volume curato da Prosperi.
Della Colonna Infame, a ogni buon conto, non esiste un’edizione critica, ma questa è soltanto una delle molte anomalie che accompagnano la ricezione dell’opera. Che appartiene pienamente al canone manzoniano e, di conseguenza, al canone della letteratura italiana, eppure risulta sempre confinata ai margini, come se si trattasse di una digressione trascurabile. Non è così, se non altro perché con la Colonna Infame Manzoni supera sé stesso quanto a maestria narrativa. Se I Promessi Sposi partono dall’invenzione, si inoltrano nella storia e all’invenzione ritornano, il percorso della Colonna Infame si svolge quasi per intero nella dimensione del documento, ma in quel “quasi” – che corrisponde alla pagina iniziale, nella quale una «donnicciola» milanese lancia l’allarme contro il presunto untore – c’è tutta la complessità di un romanzo lasciato volutamente in potenza. Si ricorderà di quell’incipit, tra gli altri, Giacomo Debenedetti, che nel suo 16 ottobre 1943 mette in scena una situazione simile, ma di significato opposto: il pericolo della deportazione degli ebrei romani dal Ghetto viene sì denunciato da una donna del popolo, ma è un pericolo autentico, tragicamente sottovalutato. Nella Colonna Infame è la mistificazione ad avere il sopravvento o, meglio, l’irrazionale desiderio di un’opinione pubblica che vuole essere confermata nei suoi sospetti infondati e che trova soddisfazione in un’autorità colpevolmente propensa a perpetuare l’ingiustizia.
La vicenda dovrebbe essere notoria, la si riassume per scrupolo, tenendo conto del fatto che questo piccolo libro (parte integrante di un libro alla cui grandezza contribuisce) ha avuto meno lettori del dovuto. Nell’estate del 1630, mentre a Milano imperversa la peste, il commissario di sanità Guglielmo Piazza e il barbiere-cerusico Gian Giacomo Mora vengono falsamente accusati di propagare il contagio. Sotto tortura, i malcapitati confessano e vengono fatti oggetto di una condanna esemplare, che comporta altre sevizie ed è simbolicamente coronata dalla distruzione della casa di Mora, al cui posto viene eretto l’ingiurioso monumento della Colonna Infame. Quando Manzoni decide di riesaminare il doloroso cold case, in effetti, la Colonna non c’è già più e circolano da tempo le Osservazioni sulla tortura di Pietro Verri, che pure aveva esitato a pubblicarle per evitare di entrare in contrasto con il padre magistrato e con il Senato milanese.
Al di là della circostanza poco onorevole (e al di fuori del labirinto di questioni familiari in cui Manzoni si dibatte: Giovanni Verri, fratello di Pietro, è il padre naturale di Alessandro e le Osservazioni sulla tortura contrastano a tratti con l’assunto di Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, nonno materno dello scrittore...), l’oggetto del dissenso espresso nella Colonna Infame è costituito dalla valutazione del dossier giudiziario. Per Pietro Verri, colpevoli sono le leggi inique che hanno reso possibile il supplizio degli innocenti. Per Manzoni, invece, la responsabilità ultima ricade sui magistrati, che avrebbero potuto applicare in maniera meno ingiusta una norma di per sé ingiusta. Anzi, insiste Manzoni, una corretta interpretazione della legge avrebbe potuto condurre a un verdetto del tutto differente.
In La minaccia nascosta (questo il titolo del denso saggio che accompagna la nuova edizione), Prosperi chiama in causa un terzo elemento, la cui mancata esplicitazione da parte di Manzoni è talmente clamorosa da passare di solito inosservata. Nella Colonna Infame, infatti, non viene mai menzionato il ruolo dell’Inquisizione, che nell’esecuzione del supplizio aveva parte attiva e determinante. Con questo, risulta evidente l’analogia tra il “terribile” destino degli untori immaginari e la macchina repressiva del Terrore giacobino, ma viene meno l’ammissione della superstizione religiosa che sta alla base del pregiudizio contro gli untori stessi. Il rilievo mosso da Prosperi è indiscutibile, non fosse altro che per puntuale ricognizione delle fonti dell’epoca. Resta però la sensazione che a guidare Manzoni non sia una generica volontà di apologetica, che mirerebbe a scagionare la Chiesa per partito preso. In gioco, semmai, c’è la sua idea di fede come esperienza spirituale e razionale insieme. Non è che Manzoni non voglia riconoscere la componente religiosa del dramma. Per lui, piuttosto, quella stessa componente non è propriamente religiosa è solo l’espressione di un delirio collettivo del quale, come annota Prosperi, siamo tornati a essere testimoni durante la pandemia da Covid-19. Per più di un aspetto il caso rimane aperto e forse lo rimarrà per sempre. Succede così quando, come Manzoni, si fa appello al tribunale della coscienza, dove giudice e imputato hanno lo stesso volto e, a volte, condividono con intenti diversi i medesimi pensieri.