domenica 26 luglio 2020
Edizione bilingue e illustrata del celebre diario di viaggio del poeta tedesco, determinante per la confezione di un’idea sul nostro Paese che perdura ancora tra i nordici
Johann H.W. Tischbein, “Goethe nella campagna romana”

Johann H.W. Tischbein, “Goethe nella campagna romana” - -

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Johann Wolfgang Goethe fece due viaggi in Italia tra il 1786 e i 1788. Mai la visita di un turista colto fu tanto determinante nella creazione di un’immagine dell’Italia, soprattutto da quando egli raccolse i suoi ricordi nel famosissimo Italienische Reise, o Viaggio in Italia. Scritto tra il 1813 e il 1817 fu pubblicato in due volumi, ai quali si aggiunse più tarde un’appendice, per un totale di oltre settecento pagine. Il libro è certamente cronaca di viaggio ma scritta come opera letteraria e ciò rende difficile il discernimento tra il reale e il soggettivo se non il posticcio. Ma è stato determinante per la confezione di un’idea sull’Italia che perdura ancora tra i nordici. Goethe guardava attraverso il filtro artistico. L’Italia era per lui preconcettualmente il Paese dell’arte, antica e moderna, il Paese delle bellezze naturali, del pittoresco, dell’arcadico. Vede Venezia e scrive: «Un soggetto adatto alla pittura del Canaletto». E similmente fa con altri artisti di suo gradimento: Roos, Gerard Dou, Lorrain, Poussin. Egli stesso si esercitò nel disegno e si portò a casa numerosi schizzi, a volte pregevoli. E commetteva l’errore, come tanti altri prima e dopo, di considerare l’Italia come un tutto unitario misconoscendo la grande frammentazione politica e culturale. Sempre da nordico, pur affascinato dalla bellezza che vedeva ovunque, provava insofferenza rispetto a quello che gli sembrava (e forse lo era) disorganizzazione, arretratezza, inefficienza.

«Quest’Italia, tanto favorita dalla natura, è rimasta enormemente indietro rispetto agli altri Paesi per tutto ciò ch’è meccanica e tecnica, sulle quali senza dubbio si fonda ogni progresso verso un’esistenza più comoda e più sciolta». La visione dell’Italia come la nuova Arcadia ha radici antiche. Virgilio nelle Egolghe si rifà a modelli greci, principalmente a Teocrito, il quale colloca gli idilli non nell’Arcadia greca ma a Siracusa. Virgilio ambienta le scene pastorali presso la nativa Mantova. Il mito era creato. Alle soglie del rinascimento arriverà Boccaccio con la Comedia delle ninfe fiorentine a fare un’operazione simile. E questa preparò il terreno a un’opera immensamente influente: l’Arcadia di Jacopo Sannazaro, pubblicata nel 1504. In pittura, il Concerto campestre di Tiziano, dipinto cinque anni più tardi, ripropone il mito. Un secolo dopo compariranno i famosissimi ed enigmatici quadri dell’Arcadia. Uno del Guercino, dipinto nel 1623 e oggi a Palazzo Barberini, presenta due pastori che si affacciano in una radura e trovano un teschio con la scritta «Et in Arcadia ego». Più o meno in contemporanea Puossin ne dipingeva due di soggetto simile, una tomba al posto del teschio. Panofsky propone due letture della scritta, come messaggio del defunto o come memento mori. Tutto ciò era di certo nella mente di Goethe, con l’aggiunta di un testo che conosceva bene, il dramma Aminta di Torquato Tasso, un elogio della vita semplice e naturale lontano dai rituali di corte.

Tutto questo è studiato e approfondito “alla tedesca” nel volume, fresco di stampa, Goethes Italianische Reise (Skira, pagine 408 illustrate, euro 30). Niente paura, il testo è bilingue tedescoitaliano ed estremamente piacevole. Scopriamo che il racconto italiano di Goethe è quello di un artista visivo più che di un poeta, e gira intorno alla costante interazione tra arte e natura. Scrive: «Insieme con Hackert ho visitato la galleria Colonna, che contiene opere di Poussin, Claudio di Lorena, Salvator Rosa. Ho avuto da lui molte notizie interessante e approfondite su questi quadri […]. Tutto ciò che mi ha detto non ha modificato le mie idee, è valso anzi ad estenderle e a precisarle. Chi può tornare subito a contemplare la natura e ritrovarvi e rileggervi ciò che quegli artisti vi avevano trovato e più o meno esattamente imitato, sente il suo spirito allargarsi, purificarsi e assurgere all’idea più completa e concreta del rapporto fra natura e arte ». E qualche tempo prima aveva annotato: «Quelle che adesso m’importano sono soltanto le impressioni dei sensi, che nessun libro può dare. Il fatto è che sto riprendendo interesse al mondo, sperimento il mio spirito d’osservazione […], mi accerto se il mio occhio è chiaro, puro e lucido».

Provava un entusiasmo tutto particolare per le montagne alpine. Da Trento, nel 1786, scriveva: «Tutto ciò che tenta di vegetare sulle montagne qui ha già maggior vigore e vitalità, il solo è caldo e si può credere nuovamente in Dio». Da nord a sud, l’ambiente che lo conquistò veramente fu quello di Napoli. «Si dica o racconti o dipinga quel che si vuole, ma qui ogni attesa è superata. Queste rive, golfi, insenature, il Vesuvio, la città con i suoi dintorni, i castelli, le ville!». Ed esclamava: «Siano perdonati tutti quelli che a Napoli escono di senno!». Suo figlio ricordava: «Mio padre non poté mai essere del tutto infelice, perché il suo pensiero tornava sempre a Napoli». E infine Roma, che lui stesso identificò con la vera Arcadia. Il racconto di Roma è pura emozione. E per godersela meglio ci era andato in incognito e sotto falso nome. Da quest’intensa esperienza venne fuori un’immagine bella ma falsata del Bel Paese. Una visone intellettualizzata, da aristocratico, da sognatore, che non era l’Italia reale di allora. I successivi viaggiatori del Grand Tour arrivavano con quelle aspettative e con quello schermo. E ancora oggi per molti turisti l’Italia è un Paese bellissimo, pieno di arte e di natura, un po’ furbetto e un po’ in disordine.

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